L’immaginario spazio a sinistra del Pd

di Guido Viale

da Il manifesto del 10 aprile 2015

Coalizione sociale. Il “cercare ancora” deve essere anche una nuova topologia politica, fondata su distinzioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ricchi, più che destra e sinistra.

Quando par­liamo di sociale, ci rife­riamo alle rela­zioni tra le per­sone — e, da qual­che tempo, anche quelle con il vivente in genere — nella vita di tutti i giorni. Ma nel lin­guag­gio poli­tico, sociale si rife­ri­sce alle modi­fi­ca­zioni di quei rap­porti con l’azione col­let­tiva: ini­zia­tive con­di­vise da una plu­ra­lità di attori che indi­chiamo con il ter­mine gene­rico di movi­menti. Con il ter­mine poli­tico ci rife­riamo invece in modo espli­cito ai rap­porti di potere, cioè alla gerar­chia che con­trad­di­stin­gue l’assetto sociale: sia che l’azione poli­tica sia diretta alla sua con­ser­va­zione, sia che sia diretta alla sua modificazione. Quella tra sociale e poli­tico è una distin­zione che nel corso del tempo ha subito molte modi­fi­ca­zioni in rela­zione al con­te­sto e oggi tende a sfu­mare: è venuta meno “l’autonomia del poli­tico”, nel senso che la poli­tica non viene più per­ce­pita come una sfera disin­car­nata, dotata di una sua logica interna, dove si con­fron­tano visioni del mondo, obiet­tivi, stra­te­gie e tat­ti­che dif­fe­renti; viene invece con­si­de­rata sem­pre più un aggre­gato sociale, dotato di una pro­pria dina­mica — a cui ci si rife­ri­sce spesso con il ter­mine “casta” — da ana­liz­zare e spie­gare in ter­mini sociali: un ceto che ha il ruolo — e i con­nessi pri­vi­legi — di mediare il rap­porto tra i cen­tri del potere finan­zia­rio mon­diale che domi­nano sull’economia glo­bale e chi ne subi­sce il comando. Vice­versa al “sociale”, inteso nel senso di insieme di movi­menti per tra­sfor­mare la realtà, viene da tempo rico­no­sciuta una dimen­sione intrin­se­ca­mente poli­tica, per­ché non si ritiene più pos­si­bile modi­fi­care quei rap­porti, anche nei suoi aspetti più par­ziali, senza met­tere in discus­sione il potere, la strut­tura gerar­chica da cui dipendono. Ma è comun­que un salto logico iden­ti­fi­care sociale con sin­da­cale e poli­tico con par­ti­tico (Marco Revelli, il mani­fe­sto 4 aprile), per poi dedurne che tra quelle due realtà pos­sono solo inter­cor­rere rap­porti ana­lo­ghi a quelli con­fi­gu­ra­tisi nel corso del Nove­cento: il modello social­de­mo­cra­tico, quello labu­ri­sta e quello “fran­cese”. Se que­sti “tipi ideali” sono accet­ta­bili in rife­ri­mento al secolo scorso, ora il sociale non è più ricon­du­ci­bile al solo sin­da­cale; né il poli­tico al solo par­ti­tico. Que­sta era peral­tro la ragione che aveva indotto Revelli a teo­riz­zare l’impasse del suo “Finale di par­tito”. Per que­sto il dibat­tito, se utile per capire da che cosa ci siamo per sem­pre allon­ta­nati, non può essere usato, come sug­ge­ri­scono Favilli e Revelli, per defi­nire le opzioni che abbiamo di fronte, né per rac­co­man­dare — troppo facile dirlo senza pra­ti­carlo — di “cer­care ancora”. La situa­zione odierna non è più quella in cui si era andato costi­tuendo il movi­mento ope­raio dell’Occidente; né quella in cui aveva impo­sto alla con­tro­parte capi­ta­li­stica e sta­tuale le inno­va­zioni dello Stato sociale: con­trat­ta­zione col­let­tiva con valenza nor­ma­tiva e gestione sta­tuale dei ser­vizi sociali: sanità, istru­zione, pen­sioni e, in parte, abitazione. La prima era carat­te­riz­zata da una con­ti­guità fisica delle abi­ta­zioni dei lavo­ra­tori tra di loro e con il luogo di lavoro, sic­ché la vita sociale che si svol­geva nelle une faceva da retro­terra anche alle lotte nelle fab­bri­che. Di qui la reci­proca inte­gra­zione tra lotte riven­di­ca­tive e sforzi per costruire, con il mutua­li­smo e il movi­mento coo­pe­ra­tivo, una alter­na­tiva sociale auto­noma e auto­ge­stita alla mise­ria indotta dall’industrializzazione. La seconda, che ha avuto il suo apo­geo quando ormai le prin­ci­pali misure di auto­tu­tela pro­mosse con il mutua­li­smo erano state sus­sunte dallo Stato e gestite da entità pub­bli­che in forme uni­ver­sa­li­sti­che, aveva comun­que tro­vato la sua base sociale nell’omogeneità della con­di­zione lavo­ra­tiva di una mano­do­pera ammas­sata nei grandi impianti della pro­du­zione fordista. Entrambi que­sti retro­terra sono venuti meno, anche se nes­suno dei due è scom­parso del tutto. La con­di­zione con cui deve misu­rarsi il “sociale” oggi è una ele­va­tis­sima disper­sione e dif­fe­ren­zia­zione dei poveri e delle classi lavo­ra­trici sia sul ter­ri­to­rio che nei luo­ghi di lavoro. Ma non è solo l’isolamento, sia fisico che psi­chico ed esi­sten­ziale, a con­tras­se­gnare i rap­porti sociali del giorno d’oggi; ancora più impor­tante è il pre­do­mi­nio cul­tu­rale del pen­siero unico; della com­pe­ti­zione uni­ver­sale di tutti con­tro tutti e della “meri­to­cra­zia”, intesa come legit­ti­ma­zione del diritto del più forte a lasciare indie­tro e schiac­ciare il più debole. Certo que­sta ideo­lo­gia e la sua ege­mo­nia hanno una base mate­riale nella disper­sione impo­sta dallo svi­luppo capi­ta­li­stico e dalla sua glo­ba­liz­za­zione. Ma pro­prio per que­sto l’impegno della poli­tica nel con­te­sto odierno deve essere un lavoro di rico­stru­zione di rela­zioni sociali soli­dali e pari­ta­rie, met­tendo al primo posto i diritti e la dignità delle per­sone: una pra­tica che riguarda soprat­tutto la costru­zione di movi­menti, le rela­zioni sociali den­tro i movi­menti e i rap­porti tra movi­menti di orien­ta­mento o ispi­ra­zione diversi. Per far sì che quei movi­menti, intesi nel senso più ampio, si diano una rap­pre­sen­ta­zione, e una rap­pre­sen­tanza, più ampia pos­si­bile della pro­pria col­lo­ca­zione sociale e poli­tica, e con ciò stesso dei pro­pri obiet­tivi e delle pro­prie fina­lità — è que­sto il senso della coa­li­zione sociale — e non per­ché si rico­no­scano in una rap­pre­sen­tanza poli­tica pre­co­sti­tuita. Vano è limi­tarsi a guar­dare a un pre­sunto “spa­zio a sini­stra” del Pd che — affi­dan­dosi a una “topo­lo­gia poli­tica” che non ha riscon­tro sociale — si sarebbe aperto in seguito alla evo­lu­zione dei par­titi social­de­mo­cra­tici euro­pei, di cui il Pd è solo un caso estremo, anche se sin­to­ma­tico. Quello spa­zio è in gran parte imma­gi­na­rio, o non “a dispo­si­zione” del primo arri­vato per costruire qual­cosa di solido; e meno che mai a dispo­si­zione di orga­niz­za­zioni già in fila da anni, senza risul­tati, per riempirlo. Quel “cer­care ancora” deve essere un nuovo modo di fare poli­tica; ma anche una nuova topo­lo­gia poli­tica, fon­data su distin­zioni come “alto” e “basso”, “uno” e “99 per cento”, popolo ed élite, poveri e ric­chi, più che destra e sini­stra. Le classi non esi­stono più? Sì, esi­stono, ma biso­gna farle emer­gere alle luce del sole per­cor­rendo strade nuove e non la ripro­du­zione dell’ennesima riag­gre­ga­zione dei resti della “sini­stra radicale”. P.S. A bene­fi­cio di Luciana Castel­lina e di chi ha letto il suo arti­colo (il mani­fe­sto, 7 aprile), pre­ciso che non ho mai scritto che «i par­titi sareb­bero tutti ceto poli­tico» (lo sono in gran parte i loro diri­genti più o meno per­ma­nenti e molti loro rap­pre­sen­tanti nei corpi elet­tivi e nelle società par­te­ci­pate; non certo, dove c’è, la loro “base”), né che «le orga­niz­za­zioni che ope­rano nella società civile sareb­bero tutte illi­bate» (ho scritto che hanno anche loro le loro pic­cole buro­cra­zie). Sono inol­tre radi­cal­mente cri­tico nei con­fronti «dell’idea negriana della mol­ti­tu­dine», come emerge da molti miei scritti (vedi per esem­pio: “Virtù che cam­biano il mondo”, 2013). Sono peral­tro con­vinto soste­ni­tore della neces­sità e dell’urgenza dell’azione poli­tica, come dimo­stra la mia par­te­ci­pa­zione alla fon­da­zione di Alba, di Cam­biare si può (ma non di Rivo­lu­zione civile) e de L’Altra Europa (ma non della sua attuale deriva buro­cra­tica e autoritaria).

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