L’autonomia differenziata in un Paese già spaccato dal clima

Venti mini Stati regionali farebbero da ostacolo alla conversione ecologica e ci impedirebbero di dare il nostro dovuto contributo alla gestione della crisi, per mitigarne gli effetti e per non esserne quindi devastati. Per dare un futuro di sobria prosperità soprattutto ai giovani

Se le conseguenze sociali ed economiche dell’autonomia differenziata possono essere drammatiche, come ci hanno ampiamente spiegato autorevoli costituzionalisti, economisti ed esperti nel campo dell’istruzione e della sanità che si sono mobilitati contro il ddl Calderoli, per le problematiche ambientali le conseguenze potrebbero essere tragiche. Un contesto di autonomia legislativa regionale assoluta ci proietterebbe infatti in uno scenario più critico di quello attuale per le difficoltà che uno spezzettamento dello Stato comporterebbe nel contrasto alla crisi climatica e ambientale. Anzi, rispetto alla questione ambientale, l’autonomia regionale risulterebbe oltre che estremamente dannosa, completamente priva di senso, si potrebbe dire demenziale. Non c’è più tempo da perdere, ce lo stanno mostrando da anni i risultati di decenni di analisi e studi scientifici sullo stato della terra.

I fatti stessi, a cui assistiamo quotidianamente, ce lo stanno rivelando in modo sempre più diretto e purtroppo tragico per molti di noi. La portata e le conseguenze dell’attuale crisi climatica richiederebbero un’immediata pianificazione, progettazione ed attuazione di strategie nazionali volte a contrastarla e a mitigarne gli effetti. Abbiamo bisogno di leggi e norme attuative coerenti, unitarie su tutto il territorio nazionale, che rendano possibile una reale transizione ecologica, o conversione ecologica, come preferisce chiamarla chi ne vuole sottolineare la necessaria radicalità. Con l’autonomia differenziata si creerebbero invece piccole isole egoistiche, guidate da interessi parziali, locali e settoriali, fuori da ogni controllo centrale democratico, probabilmente in conflitto le une con le altre.

La terra sta bruciando, le inondazioni colpiscono diverse aree del pianeta con frequenza e potenza distruttiva impensabili fino a dieci anni fa. Incendi e desertificazione come inondazioni e devastazioni sono due facce della stessa medaglia. In Canada quest’anno sono bruciati più di 10 milioni di ettari di bosco, Il fumo degli incendi ha oscurato i cieli degli Usa. Nel Vermont è recentemente caduta in 48 ore la pioggia di due mesi. In India le piogge monsoniche di luglio hanno causato diverse decine di vittime. È questa la “nuova normalità” in tutto il pianeta. L’Italia è uno dei Paesi più esposti. Ma le ondate di calore come quella che stiamo attraversando, la siccità che ha ridotto del 30% la nostra produzione agricola, come le recenti violente grandinate al nord, gli incendi al sud e le violente inondazioni di maggio in Emilia Romagna non sono calamità naturali imprevedibili e inaspettate. Si tratta di tipici eventi estremi, previstI ed annunciati in innumerevoli rapporti scientifici pubblicati da circa 4 decenni. Soltanto l’Ipcc, il gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico formato nel 1988 da due organismi delle Nazioni Unite, l’Organizzazione meteorologica mondiale e il Programma delle Nazioni unite per l’ambiente ha pubblicato quest’anno la Sintesi (Synthesis Report – SYR) del sesto rapporto di valutazione sui cambiamenti climatici (AR6), definito giustamente da alcuni ambientalisti “Ultima chiamata per la terra”.

Le attività umane influenzano sempre di più il clima e la temperatura del nostro pianeta aumenta principalmente a causa dei combustibili fossili bruciati, ma anche a seguito delle foreste pluviali abbattute, della cementificazione e degli allevamenti intensivi che insieme all’agricoltura industriale danno il loro considerevole contributo distruttivo. Bruciamo globalmente ogni anno circa 15 miliardi di tonnellate combustibili fossili ed immettiamo in atmosfera circa 36 miliardi di tonnellate di Co2. L’ 85 % circa delle emissioni totali di Co2 derivano dalla loro combustione.

La temperatura media mondiale è già aumentata di 1,1 gradi centigradi rispetto all’era preindustriale, in Italia siamo già a più di 2 gradi di aumento. Se non facciamo nulla, arriveremo ad un aumento di temperatura media mondiale di 5 gradi centigradi nel 2100. In Italia supereremo i sette gradi. Se facciamo quello che stiamo facendo oggi arriveremo a 3 gradi centigradi in più mediamente nel mondo, a 5 in più in Italia.
È necessario quindi fare di più e dobbiamo farlo subito, con la consapevolezza che anche se faremo di più, il clima tenderà comunque a peggiorare, gli eventi estremi saranno più frequenti che in passato, la situazione sarà problematica, ma non catastrofica.
Se non lo facciamo andiamo dritti verso la catastrofe.

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Dovremmo accelerare la risposta alla crisi, e invece continuiamo a supportare e finanziare un’economia estrattivista e produttivista che insegue il mito insensato della crescita infinita nel nostro piccolo mondo finito. Abbiamo un modello economico che ha mostrato tutti i suoi limiti anche anche a chi pur vivendo ancora in una zona di comfort riesce a vedere oltre il proprio spazio ristretto, ma non arriva a chi è reso miope, se non cieco, da interessi economici enormi concentrati in poche mani.

Giustizia sociale e giustizia ambientale devono andare di pari passo se si vuole che il benessere sia diffuso e duraturo. Soltanto un cambiamento radicale delle nostre attività produttive, in particolare quelle energetiche, pianificato e progettato a livello nazionale, in sintonia con l’Unione Europea e nel rispetto degli accordi internazionali siglati, può mitigare gli effetti della crisi e permetterci un adattamento che ci protegga dall’esserne devastati.
In primo luogo bisogna intervenire sulla produzione e il consumo di energia.

Eppure, secondo le stime di Legambiente, i sussidi diretti e indiretti alle fonti fossili in Italia, nel 2022, ammontavano ancora a circa 41 miliardi di euro, e non tendono a diminuire. Cosa aspettiamo per azzerare questi sussidi per investirli seriamente nelle fonti di energia rinnovabile e sul risparmio energetico? È quello che stanno chiedendo gli attivisti di Ultima Generazione. Ma quello che ottengono è criminalizzazione e condanna. C’è chi grida allo scandalo per qualche secchio di vernice lavabile su palazzi e monumenti, senza capire che i veri danni irreversibili li fa la politica che non ascolta le loro richieste. Anche dal Tribunale Vaticano sono stati esageratamente giudicati e condannati con pene che prevedono cospicui risarcimenti e perfino la reclusione, nonostante le loro azioni di disubbidienza civile seguano gli inviti all’azione rivolti ai giovani dal papa, contro il collasso climatico.

Bisogna smettere di erogare sussidi ambientalmente dannosi. È necessario elettrificare, soprattutto attraverso il fotovoltaico. La tecnologia è matura, i costi vantaggiosi.
Ma il nostro Paese non sta andando nella direzione giusta. Il rapporto di Terna -l’azienda che gestisce la rete di trasmissione elettrica italiana – riguardo alla produzione energetica da fonti rinnovabili del 2022, mostra un calo del 13% rispetto al 2021, corrispondente a 98,4 TWh su un totale di 316,8 TWh. La causa principale di questo crollo si trova nel lungo periodo di siccità che, fra i suoi effetti nefasti, ha avuto anche quello di ridurre sensibilmente la produzione idroelettrica che è calata del 37,7% rispetto al 2021. Si è registra però anche un calo dell’eolico (-1,8%) e del geotermico (-1,6%).

Diminuisce la produzione idroelettrica, sale quella da carbone e altre fonti fossili: più della metà dell’energia prodotta nel 2022 proviene da carbone o fonti non rinnovabili.
E l’attuale governo cosa fa? Prima decide di prolungare, attraverso l’assicuratore di Stato Sace, il finanziamento di progetti legati all’estrazione e al trasporto di combustibili fossili almeno fino al 2028, ritirandosi di fatto dagli accordi presi durante la ventiseiesima Conferenza delle parti sul clima (Cop26), tenutasi a Glasgow nel novembre 2021. Una scelta contraria alle evidenze scientifiche e all’opinione della comunità internazionale. Proprio il 20 marzo 2023, giorno in cui è stata resa pubblica la decisione del governo di proseguire con gli investimenti in carbone, petrolio e gas fossile. l’Italia viene indicata tra i Paesi più vulnerabili alle conseguenze degli sconvolgimenti climatici nel documento di sintesi dell’Ipcc. Il segretario generale delle Nazioni unite, António Guterres, ribadisce la necessità di cessare ogni licenza o finanziamento di nuovi impianti petroliferi e di gas. Esattamente il contrario di quanto sta facendo Sace.

Inoltre, in una recente intervista, il nostro ministro per l’ambiente Pichetto Fratin si vanta di aver sdoganato un altro progetto di rigassificatore, quello di Gioia Tauro. Dopo Piombino e Ravenna andiamo al Sud. Costi di produzione degli impianti e di trasporto enormi, e problemi di sicurezza rilevanti da affrontare, per progetti che nel giro di 10-15 anni dovranno essere dismessi, se vogliamo smettere di bruciare metano e altri fossili per arrivare alla neutralità climatica nel 2050. Il metano, che tanto ci affanniamo ad approvvigionare, è infatti uno dei gas più climalteranti, circa 25 volte più dannoso della Co2, le cui pericolose e cospicue perdite nelle varie fasi di produzione, di trasporto e di distribuzione non sono state adeguatamente considerate. La sua concentrazione in atmosfera sta aumentando più rapidamente di quanto non abbia fatto finora e ha raggiunto livelli record di circa 1,9 parti per milione. Nel 2021 l’Unep, il programma ambientale delle Nazioni Unite, ha pubblicato un rapporto che opera una valutazione sull’impatto delle emissioni di metano, indicando quanto sia urgente ridurle e qual è la strada da seguire. Rilasciamo globalmente in atmosfera circa 380 milioni di tonnellate di metano ogni anno, proveniente prevalentemente dall’industria dei combustibili fossili, dalle discariche di rifiuti e dal settore agricolo.

Si legge nel rapporto Iea (International energy agency) di gennaio 2021, che si è concentrato sulle emissioni di metano dell’industria energetica: «Assumendo che una tonnellata di metano corrisponda a circa 30 tonnellate di CO2, queste emissioni di metano sono comparabili alle emissioni di CO2 di tutto il settore energetico dell’Unione Europea».
I dati del rapporto della Iea sono stati ottenuti, per la prima volta, grazie a un monitoraggio satellitare(realizzato da Kayrros) delle perdite di metano dalle condutture degli impianti di trasporto del gas delle aziende di tutto il mondo.

Dobbiamo con urgenza cambiare rotta. Oltre che eliminare i combustibili fossili nella produzione di energia, è necessario ridurne i consumi con politiche attive di risparmio energetico (coibentazione degli edifici, delle abitazioni, riduzione e elettrificazione delle auto private e potenziamento dei trasporti pubblici elettrici, produzione locale di cibo e mercedi altro tipo, economia circolare, recupero e riciclo dei materiali).
Le fonti rinnovabili che abbiamo a disposizione sono principalmente il sole, il vento e in misura minore l’acqua. Potremmo rimpiazzare i combustibili fossili con le fonti rinnovabili in tutti i settori, dalle abitazioni ai trasporti, fino all’industria pesante, dove l’i’idrogeno verde prodotto può avere un ruolo importante. In questo modo si otterrebbe non solo l’abbattimento delle emissioni a effetto serra, ma anche la riduzione dell’inquinamento dell’aria che respiriamo, in particolare nei centri urbani.

Ma come possiamo affrontare un problema di questa portata con un sistema di venti legislazioni energetiche e infrastrutturali diverse, autonomamente definite?
Come si potrebbero adottare misure efficaci e coerenti per ridurre le emissioni di gas climalteranti su tutto il territorio italiano? L’integrazione delle fonti rinnovabili nel sistema energetico nazionale è impossibile senza unità e coordinamento nella pianificazione e nello sviluppo delle infrastrutture necessarie per la loro produzione e per la loro distribuzione, come i parchi fotovoltaici ed eolici, le linee di trasmissione elettrica e i sistemi di accumulo.
Anche la notevole differenza di disponibilità finanziarie tra regioni, che si accentuerebbe con l’Autonomia differenziata a causa della compartecipazione dei gettiti fiscali molto diversi tra regione e regione, creerebbe ulteriori ostacoli al loro coerente sviluppo. La differente disponibilità finanziaria delle regioni per affrontare la conversione ecologica è uno dei gravi problemi che la renderebbero ancora più complicata e difficile da realizzare.
Pensiamo, per esempio, al problema che si potrebbe generare soltanto con l’infrastruttura di ricarica (per i veicoli elettrici ) o di rifornimento di idrogeno (per veicoli a idrogeno) se la rete di distribuzione non fosse uniformemente sviluppata in tutto il territorio nazionale.

Per quanto riguarda il dissesto idrogeologico abbiamo visto in Emilia Romagna cosa ha prodotto il riscaldamento globale e una gestione dissennata del territorio. L’Emilia Romagna ha infatti uno degli assetti idrogeologici più artificiali e ingegnerizzati del mondo, dunque un territorio estremamente fragile. Nonostante questo è la terza regione più cementificata d’Italia. Si è costruito nelle aree protette, negli alvei dei fiumi, in quelle alluvionali. È la regione che nel 2021 ha avuto il maggiore aumento di suolo cementificato. E come se questo non bastasse, ora in Liguria, sotto la pressione della lobby locale del settore, si stanno mettendo le basi per una devastazione simile, se non peggiore di quella emiliana, nel prossimo futuro. La Regione Liguria ha infatti votato nella seduta dell’11 maggio scorso una delibera, un regolamento, che divide il territorio ligure in tre fasce di rischio, secondo il quale si potrà costruire anche nelle aree ad alto e medio rischio, ad alcune condizioni. Diceva giustamente Gramsci che «la storia è maestra, ma non ha scolari».

Di fronte alle evidenze e alla gravità dei fatti, si dovrebbe fare un passo indietro per tornare ad un unico centro decisionale, ad un Parlamento protagonista delle sfide che abbiamo di fronte e delle scelte impegnative da intraprendere. Abbiamo bisogno di una politica nazionale che abbia come obiettivo prioritario la cura costante dell’ambiente e del territorio dal punto di vista globale: energetico, industriale, agricolo e abitativo ll cambiamento di direzione non è realizzabile in un contesto di frammentazione territoriale delle scelte politico-strategiche. Si depotenzierebbe la già debole risposta data finora dai nostri governi alla crisi. L’ Autonomia differenziata finirebbe per generare scelte contrastanti e confitti per interessi divergenti tra regioni diverse a potestà legislativa autonoma e assoluta, soprattutto quelle limitrofe o che condividono risorse importanti come quelle idriche. Per non arrivare al collasso climatico-ambientale irreversibile la politica dovrebbe gestire la crisi, garantendo anche diritti economici e sociali oltre che ambientali, con la massima serietà e urgenza. Ma se il processo di spostamento della competenza legislativa dallo Stato alle Regioni venisse portato a compimento questa diventerebbe una missione praticamente impossibile. Venti mini Stati regionali farebbero da ostacolo alla conversione ecologica e ci impedirebbero di dare il nostro dovuto contributo alla gestione della crisi, per mitigarne gli effetti e per non esserne quindi devastati. Per dare un futuro di sobria prosperità soprattutto ai giovani. L’autonomia differenziata invece ci farebbe curvare nella direzione contraria, sarebbe quindi una scelta pericolosa e del tutto insensata nella logica del bene collettivo. È necessario respingerla con determinazione.

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