L’autogestione in Argentina 20 anni dopo il 2001

di Andrés Ruggeri,  ContrahegemoniaWeb – 11 dicembre 2021 

Il 2001 ha richiamato per la prima volta l’attenzione su un fenomeno che settori del movimento operaio stavano conducendo da almeno dieci anni prima dello scoppio: la lotta per il recupero e l’autogestione di varie fabbriche e unità produttive, un processo poi noto come Empresas recuperadas por sus trabajadores (ERT) ovvero imprese recuperate dai propri lavoratori. In questo testo proponiamo una valutazione critica dei limiti e del potenziale di questa importante esperienza argentina.

È abbastanza comune che, per riferirsi al movimento di imprese recuperate in Argentina, si stabilisca una relazione con gli eventi del 2001 o, direttamente, lo si identifichi come sorto in quel momento. Le fabbriche recuperate, insieme ai piqueteros e alle assemblee popolari, apparvero come i nuovi movimenti sociali che rappresentavano una rottura con tutto quello che era successo prima, nati dalla ribellione del 19 e 20 dicembre.

Questa relazione appare in tutti i tipi di narrazioni e immaginari, sia nella militanza che nei media, e persino nelle opere accademiche. E anche se non è strettamente vero, dato che il processo di recupero aziendale ha numerosi antecedenti nei decenni precedenti e uno sviluppo che può essere fatto risalire alla fine degli anni ’80, c’è un chiaro momento di irruzione di queste esperienze nella vita politica e sociale del nostro popolo che non può essere separato dalla crisi che ha portato alla caduta del governo di Fernando De la Rúa e ha aperto una nuova tappa nella storia recente dell’Argentina. E questo perché il 2001 ha dato una visibilità notoria a un fenomeno che prima esisteva ma era confinato nel micro-spazio della fabbrica (una manciata di esse) e lo ha trasformato in un riferimento per la lotta di ampi settori in un momento di enorme mobilitazione sociale.

Questa visibilità non è stata solo circostanziale o mediatizzata, ma ha dato impulso a un movimento che ha salvato dall’oblio l’idea stessa di autogestione del lavoro – ampiamente diffusa tra la “nuova sinistra” degli anni ’60 e ’70 e caduta in disuso negli anni 2000 – e le ha dato un potere che altrimenti sarebbe stato difficile da raggiungere. Questa forza ebbe un impatto anche sulle istituzioni statali, che furono costrette a rispondere a una domanda tutt’altro che massiccia: le aziende “occupate” – c’era anche una disputa concettuale e politica sul nome del processo – erano un centinaio e coinvolgevano solo qualche migliaio di (meno) lavoratori, in un momento in cui i movimenti dei disoccupati ne mobilitavano centinaia di migliaia e un quarto della popolazione aveva perso il lavoro. Come ha fatto un movimento di così piccole dimensioni a occupare un posto così importante nell’immaginario di una crisi gigantesca, che ha scosso il sistema economico e ha messo in discussione la stessa istituzionalità statale del paese? Perché ha avuto un impatto così forte sul simbolismo di una delle più grandi crisi del modello neoliberista nel mondo prima della crisi globale del 2008? Cosa hanno fatto (abbiamo visto) migliaia di militanti popolari che hanno sostenuto con entusiasmo il processo e come si rapporta questo alla relativa tolleranza del sistema politico e delle forze repressive nei confronti di situazioni che in altri momenti storici (passati e, forse, futuri) sarebbero state ferocemente e rapidamente smantellate?

Una prima risposta a queste domande è proprio il collegamento che è stato fatto rapidamente tra crisi e ripresa. Gli operai che occupano le fabbriche sono stati identificati come una rottura con i vecchi movimenti stagnanti e burocratizzati – a partire dai sindacati – incapaci di offrire resistenza al neoliberismo, parte del grande movimento scatenato dal 2001 insieme alle assemblee e ai piqueteros. Le loro caratteristiche di resistenza per una giusta causa – la difesa del lavoro in un contesto di brutale crisi economica e di massiccia disoccupazione – e le loro richieste sul posto di lavoro, bloccando raramente le strade o invadendo gli spazi dei settori sociali più agiati, hanno suscitato la simpatia dei settori medi che, tranne per brevi momenti di “picchetto e pentola”, di solito non empatizzano con le lotte di coloro che presumono essere al di sotto del loro status sociale. D’altra parte, la debolezza dell’istituzionalità politica prodotta dal “que se vayan todos” (ovvero “andate via tutti”) ha spinto i funzionari pubblici a tutti i livelli, compresi i legislatori e i giudici, a cedere in modo circostanziato a richieste che solo pochi mesi prima sarebbero state respinte, votando leggi di esproprio, concedendo permessi giudiziari, dando sussidi, promettendo sostegno, ecc. Tutte questioni che hanno dato al movimento una forza impensabile e hanno portato a progressi concreti nella risoluzione dei conflitti. Come risultato, la durata media delle occupazioni, che prima del 2002 era di quasi un anno, si è ridotta a meno di cinque mesi negli anni successivi, e più di cento leggi di esproprio sono state approvate nelle diverse legislature provinciali e persino nella Città Autonoma di Buenos Aires.

Il grosso della militanza vedeva nelle aziende e nelle fabbriche che venivano occupate e rimesse in produzione in autogestione un fenomeno di enorme importanza, per la sua potenza simbolica e la sua proiezione politica. Dopo la terra bruciata del neoliberismo negli anni ’90, con i sindacati per lo più complici o indeboliti – al punto che, salvo poche eccezioni, erano stati ridotti a una capacità di resistenza quasi pari a zero – l’improvvisa apparizione di decine di fabbriche occupate e con lavoratori disposti a formare cooperative o, nei casi che i partiti della sinistra trotskista erano riusciti a condurre, a lottare per la nazionalizzazione e il controllo dei lavoratori, ha rappresentato una sorta di resurrezione della classe operaia. Un po’ più fine e proiettiva, si intravedeva una possibilità inimmaginata di un futuro autogestito, un’alternativa che sembrava quasi miracolosamente riprendere la lotta anticapitalista. Questa idea ha alimentato l’attenzione del movimento anti-globalizzazione in piena espansione nei paesi centrali, con un flusso costante di attivisti che arrivano in un’Argentina improvvisamente a buon mercato per coloro che arrivano con valuta forte per vedere il laboratorio della società futura sul terreno. Il documentario “The Take” di Naomi Klein e Avi Lewis ha reso famose fabbriche come Zanon, Brukman e Forja San Martin. Un altro mondo era possibile e le fabbriche conquistate lo dimostravano.

Ma in realtà, al di là dei sogni di alter-globalizzazione, qualcosa di diverso stava prendendo forma nelle fabbriche recuperate. Piccoli gruppi di lavoratori stavano strappando allo stato la possibilità di appropriarsi dei mezzi di produzione dai vecchi padroni, formando cooperative operaie che ricevevano più o meno supporto governativo per il loro funzionamento, praticando, senza manuali, una gestione collettiva e assembleare che sostituiva la gestione capitalista del processo lavorativo. In alcuni casi, con un’acuta consapevolezza di ciò che si stava facendo, in altri semplicemente seguendo il flusso. In generale, i sindacati stavano a guardare e si ritiravano, in altri erano solo un’altra parte dello schema di svuotamento e saccheggio dei beni dell’impresa, in alcune eccezioni, come la UOM Quilmes o la Federación Gráfica Bonaerense, erano una parte essenziale dei processi e il motore di essi. L’autogestione del lavoro, come processo alternativo alla gestione economica tradizionale, cominciò ad essere incorporata nella cassetta degli attrezzi della classe operaia per difendersi dalla disoccupazione e dalle condizioni abusive dei padroni e, in questo modo, fu salvato un concetto chiave per qualsiasi progetto di un’economia e di una società che superi lo sfruttamento capitalista.

A differenza di altri fenomeni strettamente legati alla crisi del 2001, che diminuirono rapidamente fino a scomparire quasi del tutto o si trasformarono in processi residuali man mano che il paese si riprendeva dagli aspetti più traumatici dell’epidemia (come i circoli del baratto o le assemblee); o si riconvertirono in movimenti a base territoriale (come le espressioni maggioritarie dei piqueteros); o ancora, furono assorbiti dal sistema politico, le imprese recuperate continuarono ad esistere in forme non molto diverse dalla loro origine. Anche se alcuni hanno operato per più di due decenni e sono riusciti a consolidarsi come unità produttive, continuando contemporaneamente come organizzazioni operaie gestite collettivamente, nella maggior parte dei casi sono stati fatti pochi progressi rispetto a quanto raggiunto nei mesi successivi alla ripresa. I problemi di fondo dovuti ai limiti di una legislazione che non contempla il lavoro autogestito come una reale possibilità di gestione produttiva, le controversie irrisolte sulla proprietà, i diritti lavorativi persi rispetto al lavoro dipendente o le difficoltà per un impegno relativamente omogeneo dei lavoratori ad assumere le responsabilità di gestione che prima corrispondevano ai padroni, continuano e si aggiungono ai problemi strutturali tipici dell’autogestione nel quadro del capitalismo e, negli ultimi anni di macrismo al governo, a un’aggressività statale mai vista prima.

Dopo il fascino del nuovo movimento degli operai che si sono impadroniti delle fabbriche che i padroni stavano abbandonando, le aziende recuperate, vent’anni dopo, mostrano un panorama che comporta problemi vecchi e nuovi e numerose lezioni che dovrebbero essere discusse e affrontate. Generalmente lasciamo queste questioni sullo sfondo per non intaccare la difesa di un movimento che amiamo e rivendichiamo, ma una valutazione critica non dovrebbe trascurare le sfide e i limiti di un movimento che, per rendergli giustizia, pochi di noi immaginavano non solo sarebbe sopravvissuto vent’anni dopo, ma sarebbe cresciuto e si sarebbe moltiplicato.

Un breve sguardo alla storia del movimento

Come abbiamo sottolineato all’inizio di questo articolo, il movimento delle imprese recuperate precede la crisi del 2001, anche se è stato ripetutamente associato ad essa. Una delle chiavi per vedere questo sfondo sta nella definizione: un’azienda recuperata è un processo in cui un’azienda passa dalla gestione capitalista alla gestione collettiva dei suoi lavoratori. In altre parole, dalla società di capitale verticalmente gerarchizzata all’autogestione. Con questo concetto relativamente semplice, lasciamo da parte le definizioni di tipo normativo – se è una cooperativa operaia, se è espropriata, se ha la proprietà dello stabilimento, ecc. – che sono il modo maggioritario di identificare i “recuperi” o di tipo ideologico – qualificandoli in termini di un’idea precedente all’organizzazione o assumendo l’auto-ascrizione come criterio di realtà, comunque si considerino. Entrambe le categorie di analisi possono essere incluse nel concetto a seconda del caso, ma noi privilegiamo un processo e una definizione basata sul modo di organizzazione sociale ed economica.

Da questo punto di vista, l’impresa recuperata viene talvolta accostata al movimento cooperativo o all'”economia sociale”, intesa come quel settore dell’economia che non è né pubblico né privato, ma a gestione sociale (e ultimamente solidale), ma da un processo di trasformazione da un’unità economica capitalista basata sul lavoro salariato. Non ci sono molti precedenti, ma esistono. Ci sono persino alcune imprese “recuperate” (anche se nessuno le ha chiamate così) ancora attive negli anni ’50, come la cooperativa di trasporti La Calera, a Córdoba, o la tipografia Cogtal, oggi ad Avellaneda, in provincia di Buenos Aires, che un tempo era il laboratorio del leader della CGT de los Argentinos, Raimundo Ongaro.

Ma il processo attuale è iniziato alla fine degli anni ’80 con le prime resistenze alla chiusura delle imprese, che stava diventando una caratteristica del processo di deindustrializzazione iniziato con la dittatura e accelerato negli ultimi anni del governo Alfonsín, per diventare una brutale riconversione della struttura produttiva e industriale dell’Argentina durante il governo di Carlos Menem. Fu allora che cominciarono ad emergere i primi casi, alcuni guidati dalla sezione di Quilmes della Unión Obrera Metalúrgica, guidata dal leader Francisco “Barba” Gutiérrez, come le fabbriche Adabor, Mosconi, Vélez Sarsfield o Polimec[1]; in altri, dalla Federación Gráfica Bonaerense, sull’esempio della Cogtal, come nella tipografia Campichuelo. Nella maggior parte degli altri casi, in un certo isolamento, come la fabbrica tessile Inimbó a Chaco, la fabbrica di mattoni Coceramic a Entre Ríos, la fabbrica di carne Santa Isabel a Santa Fe o la fabbrica di carne Yaguané a La Matanza. Alcuni leader e attivisti cominciarono ad emergere e verso la fine del decennio, alcuni casi famigerati stavano gettando le basi di quello che sarebbe poi diventato il Movimento Nazionale delle Imprese Recuperate (MNER), come la fabbrica di trattori Zanello a Las Varillas[2], Córdoba, l’impianto metallurgico IMPA nella città di Buenos Aires o la Gip Metal ad Avellaneda[3].

Al momento dello scoppio della crisi, molti di questi casi e correnti si erano già collegati tra loro e il ruolo del 19 e 20 dicembre ha agito da catalizzatore per un movimento nascente, che avrebbe trovato risonanza inaspettata in un clima sociale e politico in ebollizione. Questo primo momento di organizzazione, anche se debole, è stato fondamentale perché lo scoppio del dicembre 2001 agisse come forza unificatrice del processo e consolidasse le occupazioni e i conflitti, la maggior parte dei quali erano indipendenti l’uno dall’altro, come un movimento che considerava l’autogestione delle imprese che stavano chiudendo e riusciva a generare un percorso verso quella che già cominciava ad essere chiamata “ripresa”. Un percorso a zig zag attraverso gli enormi problemi che la situazione presentava, e non senza discussioni, come quella che contrapponeva la prospettiva della cooperativa a quella della nazionalizzazione sotto controllo operaio, proposta dalle organizzazioni di un settore della sinistra. Durante tutto il 2002, con più di cento aziende occupate e che lottavano per entrare nella produzione autogestita, il movimento si consolidò, divenne visibile alla società argentina e al mondo e formò un’organizzazione, il già citato MNER, che riuscì a riunire la maggior parte delle ERT (alcune non lo fecero mai e altre continuarono ad essere legate ad altre opzioni politiche, come Zanón e Brukman).

Dalla frammentazione al movimento: le recuperadas nel 2001

I giorni 19 e 20 dicembre 2001 sono stati un punto di svolta nella storia recente del nostro paese, un’enorme crisi economica, politica e sociale che ha comportato anche la chiusura di migliaia di aziende e fabbriche di ogni tipo. Mentre i risparmiatori protestavano nelle banche per il corralito, i saccheggi si diffondevano nelle periferie – e non tanto – e le pentole tintinnavano nel resto della città di Buenos Aires, c’erano anche i lavoratori di varie fabbriche, officine e aziende che perdevano il lavoro e diventavano disoccupati da un giorno all’altro. In alcuni casi, hanno occupato gli stabilimenti per difendere i loro posti di lavoro, come gli operai della fabbrica tessile Brukman che si sono trovati soli nella loro fabbrica il 18 dicembre, o gli operai della Zanon che erano in piena occupazione da mesi prima. In altri, come gli operai dell’Hotel Bauen, sono andati a casa rassegnati, mentre hanno sbarrato l’ingresso dell’edificio che avrebbero recuperato, con l’appoggio del MNER, un anno e qualche mese dopo.

La drammatica svolta degli eventi ha accelerato il processo di avvicinamento tra questi diversi casi e ha rotto il relativo isolamento tra loro. Se tutto il paese si stava mobilitando, le imprese recuperate non sarebbero state un’eccezione. I mesi successivi videro l’emergere del movimento, che non solo cominciò a organizzarsi (con il suo centro nell’AMBA ma anche in province come Santa Fe, Córdoba e Neuquén, e con casi in quasi tutte le province del paese) ma anche a creare legami di solidarietà con altri movimenti e ad articolare un discorso coerente verso lo stato.

L’attrazione che ogni conflitto generava in una società mobilitata era in molti di questi casi la chiave che permetteva di trasformare una sfavorevole correlazione di forze. Un caso esemplare in questo senso è stata la tipografia Chilavert, reduce da un tipico processo di svuotamento che aveva lasciato solo otto lavoratori in un’officina morente e che la polizia avrebbe sfrattato senza alcun dubbio se non fosse stato per una rete di solidarietà molto ampia: la fabbrica IMPA ha contribuito con la sua esperienza e un camion che ha bloccato la porta, e migliaia di persone convocate dall’assemblea Pompeya hanno formato un cordone umano che ha dissuaso la polizia dal provocare uno scontro che in quel contesto era politicamente improduttivo. Pochi mesi dopo, la legislatura di Buenos Aires votò all’unanimità l’esproprio di Chilavert. Anche le aziende con collettivi operai debolmente determinati hanno beneficiato di questo slancio, ottenendo i loro espropri sotto l’ombrello del movimento e con i legislatori desiderosi di togliersi il problema dalle mani il più rapidamente possibile. Tale forza, con l’allontanarsi della crisi politica, si indebolì e fece sì che, negli anni successivi, le cose non fossero così spedite e i processi restassero inconcludenti.

Avere il controllo degli impianti e dei macchinari risolve parte del problema, ma è lontano dall’essere tutto. L’autogestione, ancor più in un’economia in profonda crisi, implica la soluzione di questioni complesse, per le quali non basta semplicemente che “i lavoratori conducano”. Un’opinione predominante all’epoca era la romanticizzazione dell’occupazione, che ha portato (e in parte lo fa ancora) a sopravvalutare questa fase del processo. È ovvio che si tratta di un momento fondativo, che significa l’agognata “appropriazione dei mezzi di produzione”, ma a partire dal fatto inevitabile che sono stati i capitalisti a prendere la decisione di abbandonare l’impresa e, più che appropriarsi dell’offensiva di classe, hanno abbandonato mezzi di produzione in gran parte inutili o inutilizzabili. Ben presto si è capito che la “fabbrica occupata” senza un collettivo di lavoratori organizzati per metterla in produzione, senza capitale, senza reti di solidarietà e sostegno intorno ad essa, e senza un quadro economico per costruire o ricostruire, può essere un bel centro culturale ma se non riesce a generare fonti di lavoro decenti, non realizzerà l’obiettivo per cui è stata rilevata. Il recupero del lavoro è, dal punto di vista dei protagonisti, l’obiettivo principale, il piano senza il quale tutto il resto non ha senso. Ma, allo stesso tempo, c’è il paradosso che, se il processo rimane con questo obiettivo primario – anche se si raggiunge il “successo” economico – senza trascenderlo in un quadro sociale e politico più ampio, è solo una questione di tempo prima che il potenziale di trasformazione della società recuperata sia ridotto al minimo.

Questo problema essenziale per tutti i processi di autogestione del lavoro era qualcosa che si poteva intravedere in quei primi mesi e anni, ma che l’urgenza di risolvere la fase più acuta dei conflitti rimandava a momenti più stabili. Il dibattito si è incentrato sulle alternative della nazionalizzazione con controllo dei lavoratori o dell’espropriazione e della formazione di cooperative. In pratica, il dibattito è stato risolto: nessuna fabbrica occupata è stata nazionalizzata[4], tanto meno sotto il controllo dei lavoratori, in uno stato di rottura senza direzione, almeno fino all’insediamento di Néstor Kirchner nel 2003. E successivamente, questa non è stata nemmeno l’opzione presa dal governo. Invece, il percorso più sinuoso provato dal resto delle aziende recuperate si è dimostrato efficace, basato sulla flessibilità tattica e sull’esperienza.

La relazione con lo stato e, in questo senso, l’accesso ai programmi di sostegno e agli strumenti politici per la risoluzione dei conflitti è stata la prossima fonte di dibattiti e differenze tra i leader e le organizzazioni, così come le dispute sulla leadership di un movimento con ampia visibilità pubblica. L’unità del MNER è stata di breve durata: un avvocato specializzato nelle recuperadas, Luis Caro – un personaggio ambizioso e lontano da qualsiasi approccio rivoluzionario, ma efficace in tribunale – ha fratturato il movimento già nel gennaio 2003. In seguito, i diversi settori si sono divisi e, col tempo, le ERT si sono sciolte in varie organizzazioni e federazioni. I loro problemi di base, tuttavia, sono rimasti molto simili.

Gli sviluppi successivi, una volta che la situazione del paese si stabilizzò, videro il consolidamento di un processo che, a differenza di altri movimenti sociali, aveva bisogno di essere stabilito economicamente e concentrarsi sulla risoluzione delle loro situazioni particolari in ogni caso. Non era il territorio o la mobilitazione permanente, e nemmeno l’accesso alle risorse statali, a garantire la sopravvivenza, ma piuttosto la produzione e la generazione di reddito. Questo implicava il reinserimento nel mercato di imprese precedentemente fallite o abbandonate dai loro padroni. Il sostegno statale, per quanto importante, non assicurava e non poteva – a meno che l’ipotetica “nazionalizzazione con controllo dei lavoratori” avesse avuto luogo – il flusso di reddito che avrebbe pagato i salari, coperto i costi e gli investimenti. Questo doveva avvenire attraverso l’inserimento nel mercato, il che significava che i padroni e la struttura di gestione che svolgeva questa funzione dovevano essere soppiantati senza allontanarsi dalla gestione collettiva, altrimenti si sarebbe trasformata gradualmente in una fabbrica in cui l’autogestione sarebbe stata sostituita da una struttura verticale. La realtà ha avuto cura di mostrare che questa lotta, molto meno appariscente e lontana dalle mobilitazioni e dai momenti eroici della presa di potere, doveva essere la grande sfida da vincere.

Lezioni di vent’anni di autogestione dei lavoratori

Le quasi cento imprese recuperate che si sono espresse nel primo MNER, emerso direttamente dai giorni del 2001 e 2002, sono diventate più di 400 che, attraverso il macrismo e la pandemia, continuano a funzionare fino al momento di scrivere[5]. Poco più di 15.000 lavoratori compongono un movimento che, pur avendo molte cose in comune, non ha raggiunto da tempo un minimo di unità organica, con gruppi generalmente deboli che rispondono a leadership che esibiscono come credenziali la loro capacità di dialogo con i diversi enti pubblici e funzionari di governo. Alcune organizzazioni più piccole e compatte mostrano più unità e, in alcuni casi, alcune costanti e criteri organizzativi che possono essere presi come modelli differenziati. Ma, preso nel suo insieme, il movimento sopravvive nonostante queste fragilità.

A vent’anni dal momento chiave per la costituzione di un’identità di imprese recuperate, differenziate da altre cooperative o da altri movimenti più effimeri o fluttuanti, e a circa trent’anni dai primi casi che hanno mosso i primi passi, possiamo delineare una serie di elementi di analisi che possono fornire la base per una valutazione critica di questa esperienza di autogestione operaia in Argentina. In termini generali, dal punto di vista della costruzione alternativa, possiamo delineare le principali potenzialità e risultati dell’esperienza di autogestione condotta dalle ERT nel nostro paese.

Innanzitutto, l’esperienza delle imprese recuperate in Argentina dimostra, ancora una volta, che l’autogestione è un processo economico, sociale e politico che può avere un impatto sulla restituzione e la generazione di posti di lavoro devastati dalle politiche economiche neoliberali. Anche se le condizioni sono abbastanza particolari, poiché presuppongono l’esistenza di un’azienda precedente che è stata abbandonata o fatta fallire dai padroni, le ERT mostrano che i lavoratori che conoscono il loro mestiere e sono capaci di organizzarsi per riavviare e mantenere l’attività produttiva possono anche generare meccanismi di gestione efficaci.

Questi meccanismi di gestione non sono altro che la democratizzazione dei rapporti sociali di produzione, anche se nel quadro di uno spazio produttivo delimitato e limitato a una particolare unità produttiva. Tuttavia, mostrano il potenziale della classe operaia di fare a meno delle strutture dei padroni. Come Marx affermava già più di un secolo e mezzo fa,[6] nelle fabbriche cooperative (in questo caso le nostre ERT), lo sfruttamento diretto del lavoro da parte del capitale è abolito, anche se i lavoratori non riescono a liberarsi dallo sfruttamento indiretto attraverso il mercato.

A sua volta, come fenomeno economico, l’autogestione del lavoro è uno strumento che finora è stato poco sviluppato dal movimento popolare nella disputa sulla distribuzione della ricchezza. L’economia popolare, in generale, non riesce a riprodurre – in gruppi di più di qualche migliaio di persone e in spazi molto specifici – le condizioni di funzionamento che si realizzano nelle ERT e in altri processi cooperativi con capacità di investimento di capitale; anche in modo molto limitato. Questo è dovuto principalmente a due elementi fondanti delle recuperadas che non si trovano nella maggior parte delle esperienze dell’economia popolare: l’esistenza di un collettivo precedentemente strutturato con esperienza e disciplina del lavoro (ciò che a volte si chiama “cultura del lavoro”) e il capitale conservato dal precedente fallimento del datore di lavoro sotto forma di strutture, macchinari e talvolta reti di valore. Entrambe le condizioni non sono, come abbiamo visto, una garanzia di successo, ma sono un punto di partenza che le organizzazioni di economia popolare di solito non hanno, e di solito non si propongono di avere.

Come fenomeno sociale, l’impresa autogestita è un potente collante per le reti sociali e la solidarietà, un organizzatore collettivo poco sfruttato. La differenza con le altre organizzazioni è la sua base economica piuttosto che territoriale. Ma allo stesso tempo, le imprese, specialmente le ERT, hanno spazi sottoutilizzati o inattivi che possono servire come base per altre iniziative popolari, e la loro stessa natura di organizzazione del lavoro può funzionare come concentratore di una rete di relazioni sociali che rafforza la comunità circostante. Tuttavia, ci sono pochi casi in cui questo è stato raggiunto, o è stato fatto sulla base di una strategia di costruzione del potere popolare.

In quest’ultimo senso, il potenziale del processo politico delle ERT, che potrebbe diventare, sulla base dei punti precedenti, un interessante esercizio di potere popolare, è stato poco esplorato. La tendenza delle cooperative in generale e delle imprese recuperate in particolare a chiudersi in se stesse, tendenza sostenuta dalla necessità imperativa di sostenere il reddito attraverso l’attività economica nel mercato e dalla superficialità del tessuto organizzativo raggiunto, limita la portata delle esperienze in questa direzione.

Queste considerazioni generali devono essere completate da altre relative alle difficoltà e ai limiti dell’esperienza, che sono direttamente legate al processo di questi anni nelle ERT.

La prima cosa in questo senso è che il consolidamento delle imprese autogestite deve avere un correlato a livello statale in programmi di sostegno e legislazione che garantiscano i diritti e le conquiste dell’autogestione. Il movimento delle imprese recuperate e autogestite, in tutte le sue varianti, si è rivelato finora inefficace nel generare le condizioni di progresso in questo settore dopo le conquiste dei primi anni. La riforma del diritto fallimentare del 2011 è stato l’ultimo passo avanti in questa direzione, e con molti limiti. Questo non deve andare a scapito della loro autonomia; si tratta del consolidamento dei diritti ottenuti con la forza e la lotta di un movimento che lotta da decenni, come la giornata lavorativa di otto ore, la legalizzazione dei sindacati o il diritto alla sicurezza sociale. La classe operaia in autogestione si trova in un punto cieco della legislazione: è riconosciuta come associazione per il lavoro, ma non come soggetto di lavoro. Devono rispettare le formalità fiscali e amministrative delle società economiche, ma non possono ricevere credito e sono sistematicamente lasciati fuori dalle politiche pubbliche (di recente si è cominciato ad invertire qualcosa, ma c’è ancora molta strada da fare). Il raggiungimento di una base di diritti lavorativi ed economici potrebbe essere una spinta enorme per il consolidamento e l’espansione dell’autogestione.

Un’altra questione in sospeso è la mancanza di una formazione politica e anche professionale specifica nei processi di gestione per i loro lavoratori, che è quasi esclusivamente responsabilità delle organizzazioni. I lavoratori dell’ERT sono a metà strada tra i lavoratori sindacalizzati e i lavoratori dell’economia popolare: aspettano soluzioni da un datore di lavoro assente (a volte sostituito dalla direzione stessa dell’organizzazione) o dallo Stato. Questa situazione, che parla della difficoltà di generare una gestione collettiva della produzione, si trasforma nella maggior parte dei casi in un ritardo o addirittura in un fallimento nella costruzione di un’organizzazione veramente collettiva dell’economia.

Allo stesso tempo, l’autogestione non riesce – e questo è logicamente molto difficile in un contesto così sfavorevole – a superare i vincoli del mercato, in misura molto minore rispetto agli ostacoli che lo Stato può offrire. Ma per avanzare nell’autonomia dal mercato (cioè per raggiungere la capacità di definire in parte le proprie regole e condizioni di produzione), deve avere strumenti economici che gli diano il “sostegno” necessario per farlo, cioè il capitale e la capacità di generare innovazione produttiva, così come l’innovazione sociale (che è generalmente legata all’investimento che può essere fatto). E qui appare una delle principali sfide strategiche dell’autogestione nel quadro del capitalismo: come generare capitale senza sfruttamento e senza un’ampia rete di sostegno sociale e politico che fornisca ciò che l’attività produttiva stessa ritarda o non può generare. Questa rete può includere l’appoggio attivo dello Stato, il che richiede un governo che sia disposto a farlo; e dall’altra parte, un patrimonio sociale che scommette su questo e che si rafforza con il successo di questi tentativi.

In questo senso, l’esperienza delle imprese recuperate differisce poco dalla maggior parte delle esperienze storiche nella nostra regione e altrove, specialmente nel movimento cooperativo. Questa è la sfida che l’economista polacco Jaroslav Vanek ha riassunto come “il pericolo dell’usurpazione dell’autogestione da parte dei lavoratori-proprietari”, che è alla base dello sviluppo di un’organizzazione autogestita, autocentrata e autofinanziata senza legami con strutture più grandi che le diano un senso. Il paradosso è che il successo economico si traduce in una perdita del processo di autogestione, mentre la politicizzazione senza raggiungere obiettivi nella generazione di un reddito decente per tutti i membri dell’organizzazione corre il rischio di non poter garantire la sua sopravvivenza. La risposta a questa sfida può essere, sospettiamo, attraverso l’espansione delle reti che contengono l’autogestione, la diversificazione delle fonti di finanziamento e capitalizzazione, e l’esistenza di una struttura politica per la formazione e la gestione del processo.

Quest’ultimo è particolarmente valido nelle fabbriche e nelle imprese di una certa dimensione, che non sono in grado di generare le condizioni per la riproduzione del loro circuito economico a medio termine o per investimenti che garantiscano il lungo termine, cosa che spesso appare con la necessità di rinnovare i beni capitali e aggiornare la tecnologia. La precarietà giuridica è un elemento chiave di questa limitazione, dato che poche imprese hanno titoli di proprietà e possono accedere al credito bancario, e per peggiorare le cose, in Argentina ci sono ancora poche alternative di finanziamento. Ma anche se ci fosse, le grandi imprese capitaliste hanno da tempo basato la loro espansione sul credito, il sostegno statale, l’investimento finanziario e la valorizzazione in grandi conglomerati concentrati con la capacità di offrire risorse per l’unità di business che lo richiede, e di chiudere senza ulteriori indugi quella che non rientra nello schema. L’isolamento delle aziende autogestite rende quasi impossibile superare queste situazioni.

Infine, e tornando a quanto detto sopra, la crescita di queste esperienze è fondamentale per lo sviluppo di alternative per l’economia popolare che riescano, da un lato, a superare la risorsa unica della contestazione delle risorse statali e, dall’altro, l’iper-sfruttamento attraverso la loro subordinazione alle catene produttive del capitale concentrato.

In breve, venti anni di autogestione forniscono una buona base per superare alcuni dei limiti notati sopra, se possiamo discuterli senza paura di indebolire il movimento o di offrire deboli fianchi al potente nemico, che è senza dubbio il capitale, di solito fedelmente accompagnato dallo stato. Nell’insieme, e nonostante questi limiti, le imprese recuperate non sono altro che la rivitalizzazione del processo di autogestione come strumento di costruzione economica e sociale della classe operaia, uno strumento abbandonato nel processo storico dai sindacati e dalle organizzazioni politiche. Un’idea dimenticata negli angoli della memoria storica, ma che vive e riemerge in ogni esperienza di organizzazione economica collettiva, come, senza dubbio, le imprese recuperate dai loro lavoratori. La ribellione popolare del 19 e 20 dicembre 2001 ha contribuito in modo decisivo a renderlo possibile.

Note:

[1] Ora Cooperativa Operaia Felipe Vallese.

[2] Ora Pauny, uno dei pochi casi in cui il recupero non si è tradotto in una cooperativa ma in una società tripartita che include la partecipazione della cooperativa dei lavoratori.

[3] Attuale Cooperativa Unión y Fuerza.

[4] L’unico caso documentato fu la clinica Medrano, nazionalizzata dal legislatore di Buenos Aires nel 2004. Il risultato fu la chiusura dello stabilimento e l’assorbimento dei dipendenti da parte dell’area sanitaria del GCBA.

[5] Dati del programma Facultad Abierta della UBA e del Registro Nacional de Empresas Recuperadas del INAES.

[6] Nel capitolo 27 del volume III del Capitale.

Fonte: https://contrahegemoniaweb.com.ar/2021/12/11/la-autogestion-en-argentina-a-20-anos-del-2001 

Traduzione di Marco Giustini

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