Intervento di Andrea Fioretti

Quale Piano B per l’Italia?

Di Andrea Fioretti per l’assemblea del 7 maggio


Innanzitutto occorre ricostruire il senso del dibattito per capire in che prospettiva muoversi per un “Piano B” anche in Italia. Altrimenti questo rischia di diventare uno slogan politicista generico buono per diverse interpretazioni, magari anche confliggenti tra loro.

In che contesto nasce quindi questa proposta e con quale obiettivo? Il dibattito sul “Piano B in Europa” nasce dopo il fallimento delle trattative tra il governo Tsipras e la cosiddetta Troika (UE-BCE e FMI) che ha messo sotto ricatto i greci minacciandoli di non concedere liquidità alle loro banche se non avessero applicato l’ennesimo “memorandum” fatto di controriforme sociali, privatizzazioni e distruzione del welfare. Nonostante la volontà popolare contraria, espressasi in un referendum che aveva suscitato molte speranze, il governo di Syriza ha ceduto al ricatto e ha firmato il terzo memorandum della recente storia della Grecia con la motivazione che “non c’è alternativa” alle regole imposte dall’eurogruppo.

Ecco che a quel punto, prima in seno alla sinistra greca poi un po’ in tutta la sinistra alternativa europea, si è aperta la riflessione su quale alternativa sia possibile fuori dai rigidi vincoli imposti dai Trattati europei: il “Piano A” della riforma delle istituzioni europee o il “Piano B” della rottura con tutto quello che consegue?

E’ da questo dibattito che è nata la proposta della conferenza di Madrid del febbraio scorso che ha avuto il grande merito, non di esaurire il dibattito, ma di rilanciarlo su un terreno più largo di quello dei convegni tra economisti e politici, ossia lo ha intersecato con le lotte e i movimenti europei (in particolare mediterranei) che si oppongono alle misure di austerità e al ricatto del debito che le istituzioni finanziarie europee elaborano ed i governi nazionali impongono a popoli e classi lavoratrici a seconda delle condizioni specifiche di ciascun paese.

Anche a partire dall’esperienza greca, bisogna prendere atto allora che il Piano A, la riforma in senso anti-liberista delle istituzioni europee, è fallito ed è inattuabile perchè le istituzioni europee o sono liberiste o non sono. I vincoli di Maastricht, Lisbona ecc… lo sanciscono nero su bianco e nella lettera dell’Ottobre scorso, indirizzata alla sinistra italiana, anche Oskar Lafontaine faceva notare che “voler cambiare i trattati [attendendo] la formazione di una maggioranza di sinistra in tutti i 19 Stati membri è un po’ come aspettare Godot, un autoinganno politico”.
Ma come radicare oggi a livello nazionale uno spazio politico e sociale che, in una connessione internazionale di lotte, si ponga in una prospettiva alternativa al modello europeo della UE e della BCE? Non si può che partire dalla domanda se sia possibile oppure no, restando all’interno dei vincoli dell’eurozona, applicare politiche alternative di redistribuzione verso il basso, rilanciare investimenti pubblici e pubblicizzazione dei settorie strategici sotto controllo popolare, sostenere i salari, contrastare precarietà, disoccupazione e disuguaglianze sociali, difendere l’ambiente dalla distruzione della valorizzazione capitalistica del territorio, aprire a politiche di integrazione e solidarietà coi popoli che migrano, chiudere con le politiche di guerra che questi esodi generano.
Il modello a cui fa riferimento la UE e che i suoi Trattati impongono è unicamente quello della competitività internazionale dell’Eurozona basata sulle capacità di traino dell’economia tedesca e delle sue esportazioni. E’ un fatto che se il “treno” è quello, alla compressione dei salari e del welfare operati dalla “locomotiva” redesca segua gioco-forza quella ancora più selvaggia degli altri “vagoni”, in primis dei Paesi dell’Europa del Sud, con il risultato che in questo periodo di crisi l’economia dominante tedesca (dati Eurostat) è riuscita grossomodo a tutelare i suoi livelli di produzione industriale mentre l’Italia ha perso una quota del 25%, la Spagna del 30% e la Grecia addirittura del 35%. Inoltre l’indebitamento delle banche viene sempre scaricato sulle spalle degli Stati, costretti a nuovi tagli e privatizzazioni oltreché al rispetto dei “vincoli europei”. Così come è chiaro ormai che la logica monetarista dell’eurozona è finalizzata a costruire una “gabbia” che imponga la compressione dei salari e favorisca le esportazioni tedesche. In qualche dichiarazione stampa lo stesso Renzi ha cercato far vedere che si possono allentare questi vincoli e ricontrattare un po’ le “rate” del debito al fine di giocarsela come vittoria di fronte a un elettorato italiano. Alla fine però, col placet di Confindustria, ha applicato le misure di austerity richieste. In questo quadro il cappio dei vincoli europei al collo di popoli e classi lavoratrici può essere in qualche caso allentato, ma non tolto.

D’altronde il continuo, crescente, gigantesco spostamento coatto di ricchezza verso il capitale dal lavoro e dal non lavoro, in tutte le loro forme, necessita di consenso sociale alle politiche di austerity e di fiducia nelle istituzioni italiane ed europee. Il qualunquismo e l’antipolitica sono solo una faccia dell’atomizzazione e della dissoluzione dei legami sociali prodotti da quasi 40 anni di “post-democrazia” (per dirla alla Crouch). L’altra è rappresentata dalla capacità di Renzi di utilizzare sapientemente un populismo “bonapartista” che si alimenta della passività di massa, della sfiducia e della guerra tra poveri e generazioni nei diversi settori del complesso corpo sociale salariato attuale. L’obiettivo è rendere quest’ultimo “informe” e docile alle esigenze del capitalismo. Quindi non ci sarà alcuna alternativa se non verranno superate le diseguaglianze sociali e umane, e per favorire questo processo storico in ogni epoca è necessario individuare il luogo dove ciò possa avvenire.
A questa domanda, infatti, finora nessun processo della sinistra alternativa ha saputo o voluto rispondere. Questo piano sopra esposto non può infatti essere risolto dalla discussione autistica e ossessiva su contenitori, scatole e soggetti politico-elettorali. Non è questa l’unità “utile” a sinistra. Le elezioni sono un passaggio fondamentale, non eludibile, in cui cercare di far irrompere le istanze di classe più avanzate in un progetto per l’alternativa di sistema e non di mera “alternanza” di governo.
Al contrario le “costituenti di sinistra” e i processi tentati finora si sono infranti, e si infrangeranno sempre, sui limiti di una visione meramente elettoralista che rovescia il problema dei rapporti di forza tra le classi subordinandolo alla presenza “isituzionale” e non viceversa. In questa logica non si allontanano dalle “terre di mezzo” a livello europeo, nel rapporto ambiguo col PSE, e a livello nazionale, restando nell’orizzonte governista di un nuovo centrosinistra. Basta discussioni su vuoti contenitori politici e sulla autolegittimazione dei suoi gruppi dirigenti. Non è questo il “vuoto” che c’è nel nostro paese. Se guardiamo ai processi di ribellione ai diktat della Troika in Spagna, Portogallo, Grecia e Francia di questi anni quello che manca nel nostro paese è l’attivazione politica dei soggetti sociali colpiti dalla crisi.

E allora per colmare questo vuoto, più che sperare nel colpo di fortuna alle prossime elezioni, dobbiamo ripartire dal conflitto. E per farlo dobbiamo capirea che anche noi abbiamo qui ed ora il nostro “memorandum” imposto dalla BCE che, usando anche con noi il ricatto del debito, ci chiede le “controriforme” se vogliamo continuare a ricevere liquidità e “fiducia” dagli strozzini del capitalismo internazionale.

Per stabilire una connessione sentimentale con gli altri popoli europei che combattono contro le politiche di austerità e di guerra della UE, dobbiamo organizzare la lotta contro l’agenda politica imposta dal “memorandum” rappresentato dalla lettera di Draghi e Trichet indirizzata nell’agosto 2011 all’allora governo Berlusconi e rivolta anche ai futuri governi. Questa sottolinea infatti apertamente che “il Consiglio direttivo (della BCE, ndr) ritiene che l’Italia debba con urgenza rafforzare la reputazione della sua firma sovrana e il suo impegno alla sostenibilità di bilancio e alle riforme strutturali”. Le misure ritenute “essenziali” nella lettera sono molte e hanno dettato una linea precisa alle misure dei governi da allora a oggi. Riguardano il sostegno alla competitività delle imprese, la piena liberalizzazione dei servizi pubblici con “privatizzazioni su larga scala”, la cancellazione del “sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi al livello d’impresa” per legare i salari alla produttività, il sostegno all’accordo del 28 giugno tra Confindustria e sindacati contro la democrazia sindacale, la cancellazione dell’art.18 e delle tutele contrattuali, la privatizzazione degli ammortizzatori sociali, la spending review, l’innalzamento dell’età pensionabile, la mobilità e la riduzione degli stipendi nel pubblico impiego, la cancellazione delle Province, il pareggio di bilancio in Costituzione (il Fiscal Compact), l’aziendalizzazione e l’introduzione dei criteri di produttività privati nei “sistemi sanitario, giudiziario e dell’istruzione”…tutto con la richiesta esplicita che tali misure antipopolari e filopadronali “siano prese il prima possibile per decreto legge”! 

Si capisce bene, quindi, da quale filosofia economica sono ispirate tutte le misure di questi anni come la Legge Fornero, il Jobs Act, lo Sblocca Italia, la “Buona” Scuola e ora il DDL Madia. Gli esecutivi, dal 2011 a oggi stanno ponendo, di fatto, le basi costituenti di una nuova fase, da molti chiamata ormai della “terza repubblica”, in cui molti dei punti eversivi della P2 dettano la linea programmatica per i governi futuri e di cui il PD è uno dei puntelli strutturali e non accidentali. Non è un caso che i più entusiasti sostenitori delle manovre di Renzi sono oggi i rappresentanti di Confindustria, Marchionne e Farinetti. Così come non è un caso che la minoranza attuale del PD sia totalmente ininfluente (se non collaterale) a questo processo di sovversivismo dall’alto delle classi dirigenti. Il suo orizzonte di un “centrosinistra non renziano” (che è nelle prospettive anche di Sinistra Italiana) ha dimostrati di non rappresentare che una variante social-liberista con un po’ di flexsecurity, ma non certo un’alternativa, a questo modello di austerity e di gestione della crisi capitalistica. Se l’attuale crisi capitalistica è una crisi organica, allora l’uscita a sinistra dalla crisi è l’uscita dal capitalismo stesso. E se la UE è liberista o non è, allora dobbiamo prendere atto che un modello alternativo al neo-liberismo o è anticapitalista o non è.

Per radicare nel nostro paese un processo di lotta e di organizzazione del conflitto in questa direzione bisogna individuare quindi a quali soggetti sociali facciamo riferimento, in primis, nel proporre un’alternativa a tutta la società.

Se leggiamo i dati dell’ISTAT sulle vecchie e nuove povertà, quelli dell’osservatorio della CGIL sulle crisi aziendali, licenziamenti e cassintegrazioni e persino quelli delle politiche assistenzialiste della Caritas scopriamo che nel nostro paese la crisi ha 5 facce. Una faccia giovane perchè i più privati di un futuro e di qualsiasi ammortizzatore sociale; una faccia ovviamente precaria perchè tra lavori intermittenti, tutele crescenti e ora il lavoro gratuito questa è la condizione dominante; una faccia di donna perchè a parità di condizioni nella classe sono le prime ad essere licenziate in caso di crisi aziendali e a parità di mansioni percepiscono il 30% in meno del salario; una faccia operaia perchè il nostro paese ha perso in 7 anni, come detto, il 25% della sua capacità produttiva, con aziende chiuse o delocalizzate e perchè la condizione operaia si è estesa fuori dalla fabbrica in molti settori con lavori sottopagati e ricattabili in settori come la logistica, la grande distribuzione, i call center dove la Costituzione, e tra un po’ la contrattazione collettiva, non entrano più; una faccia di migrante perchè quelli che non vengono respinti o lasciati morire nel Mediterraneo servono per lavorare al nero o sottopagati (o magari tutte e due le cose insieme col sistema dei voucher) e utlizzati per tenere alta la tensione della guerra tra poveri col razzismo e la xenofobia…

Non sarà facile ma da questo occorre ripartire anche perchè la frammentazione produttiva e sociale fa sì che solo una ristretta minoranza di attivisti oggi cerchi faticosamente una visione d’insieme dei problemi, mentre per la grande maggioranza l’atomizzazione ha agito in profondità creando, come dice efficacemente Marco Bersani, “senso di isolamento al punto da renderle disponibili alla mobilitazione solo di fronte ad un attacco diretto ed esplicito alle proprie condizioni di vita”.
È per questo che la minoranza attiva non può bearsi di “avere ragione” e inveire contro la passività del “popolo bue”. Bisogna riprendere il tema della autoconvocazione dei soggetti sociali colpiti dalla crisi, rilanciando i temi e le forme di organizzazione della democrazia diretta, non solo quella referendaria, ma quella della partecipazione attiva e decisionale sulle scelte della società, sul cosa produrre e per chi, sull’utilizzo delle risorse pubbliche e ambientali, sulla riduzione di orario a parità di salario per redistribuire il lavoro che c’è e liberare tempo di vita, sul rifiuto del debito illeggitimo.

Infine un passaggio sul tema della guerra e del coinvolgimento della UE nelle aggressioni della NATO. La natura meramente bellicista dell’alleanza atlantica non può essere sottaciuta. Le fandonie sulle “missioni di pace” sono state ormai seppellite sotto le macerie di migliaia di abitazioni civili nella ex-Jugoslavia, in Libia ed in Afghanistan rase al suolo con le bombe a grappolo e con l’uranio impoverito.

Non si va quindi verso la pace, ma al contrario la crisi alimenta la competizione e la militarizzazione delle relazioni internazionali. In questi anni, infatti, il ruolo di questa alleanza militare si è enormemente accresciuto e ha condotto la guerra in tre continenti. Quando è caduto il Muro di Berlino nel 1989, la NATO era un’alleanza di 16 membri con nessun partner. Oggi, con la sua espansione a est in funzione antirussa e in Asia per il contenimento della Cina, tra membri della NATO e partner si raggiunge il numero di almeno 70 nazioni, rappresentando di fatto la maggiore minaccia mondiale alla convivenza pacifica tra i popoli.

In questi mesi si è svolta una delle più grandi esercitazioni NATO della Storia, la “Trident Juncture 2015”, che dal 28 settembre al 6 novembre in Italia, Spagna e Portogallo con unità terrestri, aeree, navali e forze speciali dei paesi alleati e partner, ha coinvolto quasi 40 mila uomini più le industrie militari di 15 paesi per valutare di quali altre armi ha bisogno l’Alleanza.

L’Italia, inoltre, facendo parte della NATO, è obbligata a destinare alla spesa militare cifre enormi. In media 52 milioni di euro al giorno (secondo i dati della NATO stessa), cifra che secondo i nuovi impegni assunti dal governo Renzi potrebbe essere portata a oltre 100 milioni di euro al giorno.
E anche dal punto di vista degli impegni militari gli organismi sovranazionali di Bruxelles, Strasburgo e Francoforte ci vincolano senza possibilità di appello ad un ruolo imperialista e guerrafondaio. L’art. 42 del Trattato sull’Unione Europea stabilisce, infatti, che “la politica dell’Unione rispetta gli obblighi di alcuni Stati membri, i quali ritengono che la loro difesa comune si realizzi tramite l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico”. E sono membri della NATO 22 dei 28 paesi della UE (Italia in primis). Ma tale art. 42 sottolinea anche che la NATO “resta il fondamento della difesa collettiva della Ue” e che “un ruolo più forte dell’Unione in materia di sicurezza e di difesa contribuirà alla vitalità di un’Alleanza atlantica rinnovata” cosa che coinvolge quindi anche gli altri paesi non membri.

Ecco perchè la rottura con le politiche di austerity e di guerra non possono che andare di pari passo. Ed ecco perché, nel concreto, la lotta per un’alternativa al sistema capitalistico in crisi non può che passare per la rottura della gabbia dei vincoli che sono stati imposti ai popoli e alle classi lavoratrici europee e non solo. La rottura dei trattati euromonetaristi e quelli euroatlantici (TTIP compreso) sono ormai una pre-condizione per dare credibilità e respiro a qualsiasi strategia per rilanciare un’iniziativa di classe oggi e un modello alternativo al capitalismo in crisi domani.

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