INPS: Il Presidente è nudo!
Giovanni Mazzetti*
25 aprile 2015
Si pensa di solito che, a differenza del volgo, l’intellettuale sappia accostarsi ai fenomeni approfondendoli criticamente. Dovrebbe cioè trascendere l’ingenuità dell’uomo della strada, che interpreta ciò che accade affidandosi acriticamente al sentito dire. Per questo, dopo un trentennio di allarmi sulla previdenza, con ben sette interventi legislativi, il governo Renzi ha recentemente pensato di mettere alla testa dell’INPS un intellettuale, il Prof. Tito Boeri. Peccato che le prime uscite pubbliche del nuovo presidente si limitino alla rimasticazione di frasi fatte, che non aiutano a superare le erronee banalità prevalenti tra gli ignoranti. Vediamo di che cosa si tratta.
Per giustificare il disastro causato dal drastico allungamento dell’età pensionabile deciso con la Fornero, Boeri ha candidamente sostenuto a Otto e mezzo: “poiché c’è un allungamento della vita, è normale che si allunghi la vita lavorativa”. Questa logica alla Pangloss non sfiora nemmeno la problematicità dei fenomeni con i quali pretende di confrontarsi. E, purtroppo, contrasta radicalmente con i fatti. Se un secolo fa un individuo, che campava mediamente 50 anni lavorava normalmente, nel corso della sua vita, 120.000 ore (da 10 anni a 50, per 3.000 ore l’anno), oggi che campiamo mediamente 82 anni ne lavoriamo, in Europa, normalmente la metà cioè 60.000 (da 20/25 anni a 60/65 per 1.500 ore annue). Quindi mentre la durata della vita è quasi raddoppiata, la vita lavorativa si è dimezzata, riducendosi in termini relativi a meno di un quarto rispetto al passato. Perché?
L’allungamento delle aspettative di vita non è un fenomeno naturale, bensì un qualcosa che è stato prodotto dalla stessa azione umana, una novità sociale. L’aumento della produttività ci permette, infatti, di produrre di più rispetto a prima con un minor dispendio di lavoro. Il miglioramento dei processi produttivi ci consente, inoltre, di ottenere risultati che in passato sarebbero stati irraggiungibili. Tutto ciò comporta che con la stessa quantità di lavoro di prima, o addirittura inferiore, siamo in grado di produrre enormemente di più e di soddisfare molti più bisogni e più efficacemente. Perché mai, se le cose stanno così, non potremmo godere di questo maggior prodotto per un periodo più lungo, senza dover lavorare di più? La convinzione che è logicamente implicita nell’argomentazione del Presidente dell’INPS è che con lo sviluppo il lavoro non veda crescere e variare la sua produttività, e cioè rimanga sempre lo stesso. Ma si tratta di un errore grossolano.
Il Prof. Boeri potrebbe abbozzare una difesa di rito, dicendo che il vecchio sistema retributivo poteva avere un senso quando effettivamente la produttività aumentava. Ma da lungo tempo soffriamo di un ristagno, e quindi se non si lavora di più, si deve accettare un impoverimento. Ma anche questa rappresentazione del nesso tra i due momenti del processo riproduttivo non è affatto pacificamente condivisibile. Un keynesiano coerente, ad esempio, può sensatamente sostenere che il rapporto è invertito rispetto a come se lo rappresenta la maggior parte degli economisti conservatori, e cioè che è proprio perché non si consente di godere di una parte significativa della ricchezza producibile che essa non viene prodotta. Se viene inibita la domanda, e le pensioni sono una componente essenziale di questa variabile, la produzione viene ostacolata. Il ristagno, per questa teoria, non è la causa dell’impossibilità di fruire del maggior prodotto, ma l’effetto della preclusione di farlo, dovuta alle politiche di austerità che si son cominciate a praticare dagli anni Ottanta.
Che il Prof. Boeri rifiuti di confrontarsi seriamente con i problemi di cui è investito è dimostrato anche da un’altra sua affermazione. Discutendo della possibilità di decurtare gli assegni pensionistici calcolati col retributivo, di fronte all’obiezione che in tal modo si sarebbero messi in discussione dei diritti acquisiti, ha detto: “quali sono i diritti acquisiti? A mio giudizio, una definizione propria nel campo previdenziale è che il diritto acquisito corrisponde alle somme che ho versato”. Ma il sistema previdenziale in vigore dal 1969, in parte mantenuto anche con la cosiddetta riforma Dini, stabiliva appunto che la pensione fosse commisurata non ai soldi accantonati bensì alla retribuzione del momento dell’uscita dal lavoro. Se il diritto acquisito corrisponde – in qualsiasi campo – al principio che le determinazioni di una legge continuano a valere anche quando ne viene promulgata una nuova che affronta diversamente la materia, Boeri, novello allievo del Lasalle del 1860, ha in realtà detto “me ne frego dei diritti acquisiti! Faccio quello che secondo me, e secondo il senso comune odierno va fatto”. Per sostenere questa posizione senza subire il contraccolpo implicito, Boeri ha però avuto bisogno di presentare il sistema retributivo, come un abuso. Ma questo è un trucco. Il sistema retributivo è, infatti, frutto di una teoria economica consolidata, anche se non più egemone, quella keynesiana. Questa ritiene che bisogna permettere alle pubbliche amministrazioni di sostenere l’espressione della domanda fino al massimo consentito dalle risorse disponibili – che non sono adeguatamente misurate dal denaro circolante – perché altrimenti subentra il ristagno e la disoccupazione di massa. Le pensioni retributive godevano di una maggiorazione rispetto ai contributi versati perché in tal modo si permetteva ai lavoratori – attivi e in pensione – di godere della maggior ricchezza che era e sarebbe via via scaturita dagli aumenti di produttività. Aumenti che essi contribuivano a determinare con il loro lavoro. Qualsiasi lavoratore abbia attraversato la vita lavorativa in tutta la sua estensione sa perfettamente che esiste un’enorme differenza tra i processi produttivi della fase iniziale e quelli che sono seguiti fino alla sua fuoriuscita dalla vita lavorativa. Percepisce quindi, anche se fanno di tutto per confonderlo, di meritare di più rispetto alla semplice restituzione dei contributi, come se invece li avesse solo depositati in banca o in una società assicurativa.
C’è infine un ultimo punto. Per Boeri l’allungamento della vita lavorativa servirebbe ad accantonare più contributi, “perché altrimenti quella differenza dovrebbe essere pagata da chi lavora”. A ognuno i suoi soldi! Ma chi non porta paraocchi ideologici sa che la “previdenza” è un istituto sociale, che in tutti i casi presuppone la chiamata in causa dell’intera società. Se qualcuno accantona soldi, ma quei soldi non tornano in circolo per mediare l’evoluzione delle attività produttive, e la creazione di mezzi di produzione più efficaci, finisce col trovarsi, non già col potere di soddisfare i suoi bisogni, ma con dei pezzi di carta dei quali non sa che farsene. D’altra parte, il sistema pensionistico, sia esso a ripartizione o contributivo, presuppone sempre che qualcuno paghi per la pensione di qualcun altro, così come altri pagheranno per la sua. Che il denaro possa essere accantonato per la propria vecchiaia, con una pensione fai da te, è un’illusione ottica. Se i contributi non tornano in circolo, mediando sistematicamente l’attività produttiva e la soddisfazione dei bisogni altrui, si dissolvono nel nulla.
Non serve scomodare il bambino della fiaba di Hans Kristian Andersen per riconoscere che, per quanto riguarda la conoscenza dei fatti della vita moderna, il Presidente dell’INPS è nudo.
*Professore associato di economia politica all’Università della Calabria, Arcavacata