Guido Viale: intervento al convegno di Altra Liguria-Primalepersone, Genova 24.10.2015
Nel corso dell’ultimo anno, nell’attività di Primalepersone, si sono intrecciati due diversi approcci: uno teso a promuovere una aggregazione di diverse organizzazioni, dai chiari connotati politici, sulla base di una appurata affinità delle loro impostazioni programmatiche. L’altro impegnato soprattutto nell’aggregazione di organizzazioni di base e comitati di lotta intorno a obiettivi di mobilitazione, per far crescere, a partire da essi, una prospettiva di trasformazione sociale di carattere più generale.
Personalmente propendo per la seconda linea di condotta: la prima mi pare troppo simile ai tentativi di aggregazione promossi dalla lista L’altra Europa, che ci siamo volutamente lasciati alle spalle, e troppo esposta a decomporsi con molta facilità, nonostante la fatica impiegata per promuoverla. La seconda definisce invece in modo chiaro quale può essere il ruolo di un’organizzazione piccola come Primalepersone senza pretendere di essere, o di star costruendo, il fatidico “soggetto” politico nuovo.
Nel corso dell’ultimo anno, nell’attività di Primalepersone, si sono intrecciati due diversi approcci: uno teso a promuovere una aggregazione di diverse organizzazioni, dai chiari connotati politici, sulla base di una appurata affinità delle loro impostazioni programmatiche. L’altro impegnato soprattutto nell’aggregazione di organizzazioni di base e comitati di lotta intorno a obiettivi di mobilitazione, per far crescere, a partire da essi, una prospettiva di trasformazione sociale di carattere più generale.
Personalmente propendo per la seconda linea di condotta: la prima mi pare troppo simile ai tentativi di aggregazione promossi dalla lista L’altra Europa, che ci siamo volutamente lasciati alle spalle, e troppo esposta a decomporsi con molta facilità, nonostante la fatica impiegata per promuoverla. La seconda definisce invece in modo chiaro quale può essere il ruolo di un’organizzazione piccola come Primalepersone senza pretendere di essere, o di star costruendo, il fatidico “soggetto” politico nuovo.
Sul termine abusato di “soggetto politico” varrebbe peraltro la pena soffermarsi, ma in un’altra sede. Qui mi basta ribadire, come avevo già fatto tempo fa, prendendo le distanze da Alba, che quel termine, soggetto, peraltro ampiamente decostruito dal pensiero contemporaneo, rimanda inevitabilmente a qualcosa di unico, di monolitico, di identitario, di maschile e, aggiungo io, di subalterno: soggetto, nonostante il rimando a un’autonoma capacità di iniziativa a cui lo ha piegato, insieme al suo derivato “soggettività”, il linguaggio politico odierno, rimanda storicamente a concetti come quelli di sostrato, di supporto, di suddito: cioè a qualcosa che “prende forma” da un’entità superiore: sia essa la teoria, l’ideologia, il modello di sviluppo o la struttura organizzativa.
Con queste premesse, non aspettatevi da me la descrizione di un modello sociale alternativo e definito. Cercherò invece solo di delineare una traccia per sviluppare iniziative e individuare le condizioni di possibilità di un cammino comune verso la sostenibilità ambientale e sociale. Abbiamo di fronte due temi e due scadenze decisive:
La prima scadenza è la COP 21 di Parigi, ultima occasione, a detta di molti – e speriamo che non sia così, perché le sue premesse non promettono niente di buono – per invertire rotta rispetto al riscaldamento globale del pianeta che rischia di rendere irreversibili e devastanti i cambiamenti climatici in corso. Una prospettiva a cui noi abbiamo da tempo contrapposto l’obiettivo della conversione ecologica: sulle tracce di Alex Langer e, più recentemente, dell’enciclica Laudato sì e della cultura sviluppata soprattutto in America Latina e nel Sudest asiatico (cioè in una parte decisiva del cosiddetto Global South) a cui quell’enciclica ha largamente attinto. Ma anche, solo per citare un altro riferimento fondamentale della nostra cultura politica, alle conclusioni a cui è pervenuta nel suo recente libro Una rivoluzione ci salverà Naomi Klein, che ha spiegato molto bene come un’economia interamente fondata sui combustibili fossili non può essere abbandonata se non con un sovvertimento radicale degli attuali assetti produttivi e soprattutto sociali; il che spiega molto bene perché le destre conservatrici siano ferocemente, e contro ogni evidenza, avvinghiate a un approccio negazionista in materia.
E’ questa consapevolezza, che lega strettamente l’aggressione alle risorse della terra alla povertà e alle diseguaglianze che attraversano il pianeta sia nei rapporti tra Global North e Global South, sia all’interno di ogni singolo paese, che ci fa unire in un’unica e indisgiungibile formula il concetto di giustizia sociale a quello di giustizia ambientale.
Il secondo tema centrale è il nostro rapporto con la questione dei profughi e dei migranti. Diciamo subito, a scanso di equivoci, che per noi la distinzione tra profughi di guerra e migranti economici, su cui i governi dell’Unione europea cercano di costruire le loro politiche di difesa da questa presunta invasione di “barbari”, non ha alcun fondamento: entrambi sono in realtà “profughi ambientali”, perché all’origine delle condizioni che li hanno costretti a fuggire dai loro paesi, cosa che nessuno fa mai volentieri, c’è una situazione di insostenibilità provocata dai cambiamenti climatici, dal saccheggio delle risorse locali, dalla penuria di acqua, dall’inquinamento dei suoli, tutti fenomeni in larga parte provocati dai governi europei e occidentali e dall’economia del Global North.
Il problema dei migranti non è destinato a esaurirsi a breve: occuperà, con un ruolo centrale, tutto lo spazio del discorso e del conflitto politico nei prossimi anni; sta dividendo tra loro, nel tentativo di scaricarsene a vicenda l’onere, i governi dell’Unione europea, che avevano invece trovato una singolare unanimità nel far pagare alla Grecia lo scotto della sua ribellione contro le politiche di austerità. Anche per questo l’Unione europea, non come istituzione, e nemmeno nei suoi confini amministrativi attuali, bensì come ambito di un processo sociale, culturale e politico che abbraccia insieme all’Europa tutto lo spazio geografico e politico coinvolto da questi flussi, deve restare un punto di riferimento irrinunciabile per una prospettiva politica come la nostra che, a livello solo nazionale, non ha alcuna possibilità di affermarsi.
Vorrei far notare, tra parentesi, a coloro che recentemente si sono riuniti per affermare con forza un loro posizionamento riassunto nelle formule No all’euro, No all’Unione europea, No alla Nato (ma declinata anch’essa, con il vecchio slogan “Fuori l’Italia dalla Nato”, in termini di sovranità nazionale e non di trasformazione dell’Europa), che si sono dimenticati dei migranti. In una prospettiva come quella che hanno delineato, il compito di far fronte ai flussi presenti e futuri, non solo in termini di accoglienza o respingimento, ma anche e soprattutto di inserimento sociale e lavorativo, graverebbe unicamente sui due unici punti di approdo di questo esodo: Italia e Grecia. Ma mentre l’Europa nel suo complesso ha sicuramente le risorse per farvi fronte, l’Italia, con una sua recuperata sovranità – posto che la cosa abbia senso e possibilità di realizzarsi – finirebbe per rimanerne completamente stravolta. Il che non è detto che non rientri tra una delle opzioni prese in considerazione dall’attuale governance europea.
Quei flussi migratori stanno creando anche una frattura sociale, culturale e politica all’interno di ogni singolo paese: tra una componente maggioritaria (ma per ora non ancora vincente) di razzisti, che vorrebbero sbarazzarsi del problema con le spicce, e una componente solidale, oggi sicuramente minoritaria, ma tutt’altro che insignificante (come lo è invece la maggior parte delle organizzazioni della sinistra europea). Mentre i governi, sia quelli dell’Europa “forte” che quelli a essa subalterni, si barcamenano: dopo aver aizzato il loro elettorato, per fidelizzarlo, contro i popoli fannulloni e parassiti che sarebbero all’origine della crisi economica, si rendono ora conto che quel tema gli sta sfuggendo di mano e viene ripreso, in funzione anti-migranti, da forze ben più capaci di loro di metterlo a frutto.
Se per fermare quei flussi bastasse deciderlo, anche adottando misure molto dure, come nuove barriere, respingimenti, esternalizzazione dei campi, esclusione sociale e carcerazione, se tutto questo bastasse, probabilmente avrebbero già vinto i nostri antagonisti. Il loro (e nostro) problema dipende dal fatto che le cose non stanno affatto così; e per diversi motivi:
Innanzitutto quei profughi e migranti sono già, per molti versi, cittadini europei, perché si sentono tali: vedono nell’Europa la zona forte di un’area molto più vasta, quella dove si manifestano gli effetti di quei processi – guerre, dittature, devastazioni dei loro territori, cambiamenti climatici – che li hanno costretti a fuggire. Inseguono l’Europa come un loro diritto: un sentire che li pone ovviamente in aperto contrasto con i governi dell’Unione, che di quel diritto non ne vogliono sapere. Sono per questo una componente fondamentale del proletariato europeo che esige dall’Europa un cambiamento di rotta radicale fuori e dentro i confini dell’Unione.
In secondo luogo, sigillare la “fortezza Europa” non è così semplice: significa addossarsi la responsabilità di una strage continua e crescente che sconfina con una vera e propria politica di sterminio pianificata e organizzata: un processo già in corso da tempo e taciuto nel suo svolgimento quotidiano, perché la cronaca si limita a registrarne soltanto le evenienze più drammatiche e più difficili da nascondere.
In terzo luogo, la chiusura delle frontiere esterne non potrebbe non tradursi in un feroce irrigidimento degli assetti politici interni, in termini di repressione, di autoritarismo, di disciplinamento e di limitazione delle libertà; proprio mentre imperversano politiche di austerità che ben presto faranno sentire le loro conseguenze negative anche sulle popolazioni degli Stati “forti” dell’Unione, quelli che finora ne hanno beneficiato. Si tratta di politiche tese, finora, a ridurre nelle stesse condizioni del Global South gli Stati marginali dell’Unione, a partire dalla Grecia e, per ora, dal meridione dell’Italia.
Infine, in una prospettiva di militarizzazione sociale del genere non c’è alcuno spazio per politiche socialmente sostenute di conversione ecologica, cioè di lotta contro i cambiamenti climatici. E tuttavia il deterioramento dell’ambiente e del clima è destinato comunque a procedere a passo sempre più rapido, trovando la fortezza Europa sempre più impreparata ad affrontarlo sia in termini di mitigazione che in termini di adattamento.
Qui si inserisce l’innesto tra politiche di accoglienza, inclusione e inserimento sociale e lavorativo dei profughi e programmi di conversione ecologica degli assetti produttivi e degli stili di vita che dovrebbero sostenerli. Questo innesto, che è compito nostro promuovere (insieme a milioni di abitanti di questa terra già da tempo impegnati sullo stesso terreno) si articola in diversi passaggi:
Innanzitutto, occorre prendere atto che i confini dell’Europa non coincidono né con quelli dell’Euro, né con quelli dell’Unione o della Nato, ma abbracciano tutti i paesi da cui provengono i flussi maggiori di migranti: Medio Oriente, Maghreb, Africa subsahariana, e anche Pakistan e Afghanistan.
In secondo luogo occorre saper vedere nei profughi e nei migranti che raggiungono l’Europa, o che sono già insediati in essa, ma anche in quelli malamente accampati ai suoi confini, i referenti sociali – grazie anche ai rapporti che continuano a intrattenere con le loro comunità che sono rimaste nei loro paesi di origine – un’alternativa sociale alle forze oggi impegnate nelle guerre, nel sostegno alle dittature e nelle devastazioni dei territori che li hanno costretti a fuggire. Non c’è partigiano della pace migliore di chi è stato costretto a fuggire dalla guerra; né sostenitore della rinascita del proprio paese più convinto di chi ha sperimentato le condizioni che ne hanno provocato il degrado.
In terzo luogo occorre vedere l’inserimento lavorativo dei profughi e dei migranti che arrivano in Europa una componente essenziale e irrinunciabile della loro inclusione sociale e politica nel tessuto dei paesi che li ospitano. Per questo di tratta di creare milioni di posti di lavoro, di fornire un’abitazione decente e un’assistenza adeguata sia a loro che ai cittadini europei che ne sono privi. Soltanto la riconversione ecologica di tutto l’apparato produttivo e di tutto l’assetto edilizio e territoriale dell’Europa e, ovviamente, la fine delle politiche di austerità, possono rendere effettivo questo obiettivo.
Qui occorre aprire un inciso: noi non siamo – credo – per la creazione di nuovi posti di lavoro perché consideriamo il lavoro, così come è organizzato oggi, un “bene comune” o una condanna comunque ineliminabile. Lavoriamo per trasformare il lavoro così com’è oggi in una attività quanto più libera e autodeterminata domani. Ma non sedendoci sul bordo di un fiume e aspettando che la soppressione del lavoro faccia il suo corso, come è stato riproposto recentemente; bensì a partire dalle lotte e dall’impegno a costruire una diversa organizzazione del lavoro da parte di chi in esso è impegnato; o intende, desidera o ha bisogno di impegnarsi. Questo, secondo me, sono i termini e i limiti in cui possiamo accogliere e tradurre la proposta sociale e culturale della “decrescita”.
I settori produttivi in cui è essenziale intervenire per promuovere la conversione ecologica sono stati da tempo individuati: fonti rinnovabili ed efficienza energetica; agricoltura e industria alimentare di piccola taglia, ecologiche e di prossimità; gestione dei rifiuti; mobilità; edilizia e salvaguardia del territorio. Oltre, ovviamente, agli ambiti trasversali della cultura, dell’istruzione, della salute, della ricerca.
L’establishment di governo e dell’industria europea non ha la cultura né l’esperienza organizzativa né gli strumenti operativi per affrontare un compito del genere: sia per quanto riguarda l’abbandono in tempi rapidi delle tecnologia basate sui combustibili fossili, sia per quanto riguarda l’accoglienza, l’inclusione e l’avviamento al lavoro di milioni di nuovi arrivati. Ha anzi dimostrato di non volere accogliere né includere neanche milioni di cittadini europei a cui ha anzi sottratto, e sta continuando a sottrarre, lavoro, reddito, casa, istruzione, assistenza sanitaria, pensioni. Meno che mai si può affidare questi compiti alle forze “spontanee” del mercato. Per questo la conversione ecologica richiede la formazione in tempi rapidi di una nuova classe dirigente in grado di prendere in carico un compito del genere, a partire da quello più urgente, che è l’accoglienza e l’inserimento sociale dei migranti. Il terzo settore, l’economia sociale e solidale, nonostante tutte le aberrazioni di cui ha dato prova in tempi recenti – soprattutto in Italia e soprattutto nei confronti dei migranti – è l’unica forza in Europa che abbia maturato un’esperienza pratica, una cultura e un bagaglio di progetti in questo campo. Per questo è della massima importanza impegnarsi nella promozione di queste tematiche, anche e soprattutto utilizzando la scadenza del prossimo Forum europeo dell’Economia sociale e solidale che si terrà a Bruxelles il prossimo 28 gennaio. Primalepersone è già pienamente coinvolta, limitatamente alle sue scarse forze, in questo percorso.
Negli anni ’50, nel pieno della ricostruzione postbellica e delle politiche che avrebbero dato vita al cosiddetto miracolo economico, l’Europa occidentale aveva accolto 20 milioni di profughi e di migranti: 10 dai paesi dell’Est europeo e dieci dai paesi del Mediterraneo: Italia, Grecia, Spagna e Portogallo, da un laro, Turchia, Maghreb, Africa subsahariana, India, Pakistan e Caraibi, dall’altro. Beneficiando enormemente del loro apporto, senza il quale l’Europa sarebbe rimasta un’economia stagnante.
Ancora recentemente, prima della crisi del 2008, ma già in pieno clima liberista e restrittivo, l’Europa assorbiva, secondo l’economista Thomas Piketty, circa un milione di migranti all’anno: il minimo indispensabile, peraltro, per compensare il suo vistoso e irreversibile calo demografico (con tutte le conseguenze, in termini di invecchiamento della popolazione, che ne derivano).
L’allarme sociale odierno per l’invasione dei nuovi “barbari” è dunque in gran parte un prodotto artificiale e strumentale di una politica di fidelizzazione dell’elettorato che le forze di governo hanno alimentato per rischiare poi di venirne travolte ad opera di una destra razzista, nazionalista e antieuropea che questi sentimenti e queste fobie le sa sfruttare molto meglio. Di fronte a questa offensiva l’Europa dei Governi è disarmata. Dobbiamo dimostrare che un’alternativa alle politiche di respingimento e all’inerzia di fronte a un deterioramento dell’ambiente planetario sempre più rapido e profondo c’è. E che di questa alternativa noi possiamo essere i portatori.