Guido Viale: Il vertice di Parigi

di Guido Viale

Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi. Se i ripetuti allarmi di tanti scienziati, e non solo di quelli IPCC, ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale. E’ quello che evidenzia Naomi Klein nel suo ultimo libro Una rivoluzione ci salverà, quando scrive che “ha ragione la destra”.

di Guido Viale

Il mondo arriva decisamente impreparato al prossimo vertice di Parigi. Se i ripetuti allarmi di tanti scienziati, e non solo di quelli IPCC, ha fatto breccia sulla parte più avvertita, ma non certo sulla maggioranza, dell’opinione pubblica, inconsapevolezza e irresponsabilità dominano a livello planetario l’establishment politico. Il quale è stato sì edotto del problema e non può più far finta di ignorarlo (anche se al suo interno le lobby negazioniste continuano a esercitare una massiccia influenza); ma continua per lo più a trattare i cambiamenti climatici, che sono già in corso, come tutti possono constatare, e non riguardano solo un remoto futuro, come una “grana” di cui ci si deve occupare quando viene messo all’ordine del giorno, e che richiede tutt’al più qualche misura e qualche investimento ad hoc; non un cambiamento radicale, e in tempi brevi, di tutto l’assetto non solo economico produttivo ma anche sociale. E’ quello che evidenzia Naomi Klein nel suo ultimo libro Una rivoluzione ci salverà, quando scrive che “ha ragione la destra”. La quale, soprattutto negli USA, dove è strettamente legata al mondo del petrolio, ha capito che liberarsi dei combustibili fossili non significa solo sostituire una tecnologia con un’altra, petrolio, metano e carbone con fonti rinnovabili; ma che per farlo occorre ridisegnare “dal basso”, e in modo democratico, cioè partecipato, tutta l’organizzazione sociale: una cosa che la destra non è assolutamente disposta ad accettare, costringendola ad allinearsi ad oltranza con le posizioni negazioniste. Ma altrove, cioè al centro, tra coloro che tengono le redini dei governi (la sinistra è quasi ovunque scomparsa dalla faccia della Terra), ci si continua a comportare come se il problema non fosse questo: a parlare di crescita e di sviluppo come se, chiuso il dossier cambiamenti climatici, il problema centrale fosse quello di rimettere in moto, costi quel che costi, il PIL. Tipica di questo atteggiamento, è la strategia energetica nazionale (SEN) dell’Italia varata dal Governo Monti, confermata da Letta e peggiorata da Renzi, dove i capitoli sulle fonti rinnovabili e sull’efficienza energetica convivono col programma di estendere le trivellazioni su tutto il territorio nazionale e di trasformare il paese in un hub per distribuire metano a tutto il resto d’Europa. In termini di inconsapevolezza e di irresponsabilità la grande stampa di informazione e i media non sono da meno: tutti hanno le loro pagine e i loro servizi sui cambiamenti climatici (anche se il Corriere della Sera continua a riproporre in sempre nuove versioni tesi negazioniste), ma, voltata pagina, si torna regolarmente a parlare di crescita e sviluppo in termini di un ritorno alla “normalità”: a stili di vita e modelli di consumo si sempre.

La conseguenza di tutto ciò è che il pubblico non è stato messo in grado, nemmeno dalle trasmissioni e dagli articoli più seri e informati, di rendersi conto che “niente tornerà più come prima”. E questo, sia che le Terra continui imperterrita la sua marcia verso la catastrofe climatica, sia che finalmente si imponga un cambio di rotta come quello che molti si aspettano dal vertice di Parigi. E’ un po’, ma in una scala enormemente maggiore, lo stesso atteggiamento che si è andato consolidando di fronte alla crisi del 2008, che per molte economie del mondo si è andata trascinando fino ad oggi. Pochi sono stati aiutati a capire – e quelli che lo hanno capito lo hanno fatto a proprie spese – che niente può tornare come prima: che l’epoca degli alti salari, della piena occupazione, dei consumi di massa, del lavoro sicuro e del welfare garantito dallo Stato  (istruzione, sanità, pensione e indennità di disoccupazione) è finita per sempre; e che le condizioni che rendono possibile un lavoro e una vita dignitosa per tutti impongono un cambiamento radicale degli assetti economici e sociali. I due problemi, peraltro, quello dei cambiamenti climatici e quello della crisi economica permanente, sono tra loro strettamente legati, perché la via di uscita è la stessa: un insieme di tecnologie decentrate e distribuite, una organizzazione sociale partecipata, una condivisione generalizzata delle responsabilità sia in campo produttivo che nelle scelte economiche e politiche, un diverso modello di consumo.

Se andiamo a vedere quali sono gli ambiti, le filiere, i settori che oggi dipendono maggiormente dai combustibili fossili – e che quindi richiedono con maggiore urgenza una rapida e radicale riconversione – non è difficile individuarne quattro; oltre, ovviamente, la generazione elettrica.

Innanzitutto la mobilità: il modello fondato sulla motorizzazione individuale non è sostenibile e l’alimentazione elettrica dei veicoli non ne cambierebbe sostanzialmente l’impatto. Una vettura ogni due abitanti (la media dei paesi sviluppati; l’Italia ha un tasso di motorizzazione ancora più elevato) in un pianeta che tra trent’anni ospiterà dieci miliardi di esseri umani (per poi, finalmente fermarsi), oltre a consumi insostenibili, che metterebbero a dura prova la possibilità di garantirli con fonti rinnovabili, non troverebbero suolo sufficiente per muoversi né per parcheggiare. La soluzione è a portata di mano ed è la condivisione del veicolo resa possibile dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ITC): car-sharing, car-pooling e trasporto a domanda (taxi collettivo), distribuzione condivisa delle merci (city logistic) sono ormai presenti in varie versioni, rudimentali o sofisticate, in tutto il mondo e si stanno diffondendo a ritmo serrato. Naturalmente hanno bisogno di un’integrazione intermodale con il trasporto di massa lungo le linee di forza della mobilità: la promozione dell’intermodalità è un’attività complessa, che richiede una cura particolare. Ma ben poco è stato fatto finora per aiutare la popolazione a concepire la propria vita, e a riorganizzarla, senza contare su una propria automobile personale. Meno ancora per garantire che sevizi adeguati di mobilità flessibile vengano messi a disposizione di tutti. Eppure, in nessun settore come in quello della mobilità si dimostra che è l’offerta a creare la relativa domanda: nessuno aveva, né avrebbe potuto, creare una domanda di car-sharing fino a che un servizio del genere non fosse stato attivato. Ma mobilità sostenibile significa anche riduzione degli spostamenti: un problema che tocca direttamente i rapporti con la pubblica amministrazione (e-government) e il telelavoro, nei confronti dei quali non si intravvedono misure di promozione adeguate, e soprattutto il contenimento dello sprawl urbano e del conseguente consumo di suolo, dove si mettono in gioco interessi immobiliari quasi altrettanto potenti e “intoccabili” di quelli dell’industria petrolifera.

In secondo luogo i consumi del settore civile: edilizia residenziale e di servizio, soprattutto per quanto riguarda riscaldamento e climatizzazione: anche in questo campo le tecnologie per ridurre drasticamente i consumi, e per convertirli alle fonti rinnovabili o a un uso diffuso della cogenerazione sono ampiamente testate, sia sulle nuove costruzioni che sugli edifici esistenti, di qualsiasi epoca. Ma diffonderle su tutto il patrimonio esistente è un’impresa titanica: non solo per l’entità dell’investimento, che richiederebbe comunque una complessa articolazione per ripartire la spesa tra intervento pubblico, incentivazione dell’investimento privato e soluzioni finanziarie ad hoc. Ma l’articolazione riguarda soprattutto il mix di fonti rinnovabili, di interventi impiantistici, di ristrutturazioni edilizie, di soluzioni finanziarie e soprattutto di strumenti di comunicazione e di divulgazione che richiedono un approccio specifico, non solo edificio per edificio e territorio per territorio, ma anche interlocutore per interlocutore: diverso è ovviamente l’approccio a una proprietà individuale, a un condominio, a una piccola o media impresa, all’unità locale di un grande gruppo. Oggi gli interventi vengono per lo più promossi e proposti in ordine sparso, mentre attrezzare squadre pluridisciplinari di tecnici in grado di fare un check-up integrato e una progettazione di massima degli interventi possibili in ogni edificio è la premessa perché ciascuno – proprietari, inquilini, amministratori, imprenditori, manager e dipendenti – si confronti con la responsabilità di rendere sostenibile la porzione di territorio in cui vive e lavora. E’ poi più che ovvio che dal punto di vista occupazionale un intervento a tappeto di questo genere è la premessa per un grande piano pluriennale in grado di creare milioni di posti di lavoro e di compensare qualsiasi perdita occupazionale derivasse dal ridimensionamento dei settori più direttamente legati all’uso dei combustibili fossili.

In terzo luogo – ma forse al primo – occorrerà rivoluzionare le nostre abitudini alimentari. Oggi, in media, per ogni caloria di cibo che arriva sulla tavola di un consumatore occidentale (o dalle abitudini alimentari occidentalizzate), ne vengono consumate nove-dieci di origine fossile: concimi, pesticidi, motorizzazione, trasporto (anche intercontinentale), stoccaggio, manipolazione, confezione, imballaggio e pubblicità rendono il sistema agroalimentare insostenibile. La filiera agroalimentare dovrà cambiare radicalmente: l’agricoltura dovrà essere ecologica (usando fertilizzanti naturali e privilegiando la protezione biologica delle colture), multicolturale, per salvaguardare la fertilità dei suolo, multifunzionale, per garantire ai produttori fonti di reddito diversificate, di prossimità per evitare costi di trasporto e stoccaggio eccessivi. In gran parte questa trasformazione dipenderà dalle scelte dei consumatori, che dovranno associarsi per garantirsi attraverso un rapporto il più diretto con i produttori, un’alimentazione di qualità, a basso impatto ambientale, prodotta il più possibile da aziende agricole e di trasformazione di prossimità: il che potrebbe cambiare radicalmente l’aspetto del territorio periurbano delle città grandi e piccole, a partire dalla grande diffusione che stanno avendo gli orti urbani, che impegnano spesso in modo condiviso gli stessi consumatori finali in forme che segnano un cambiamento radicale di filosofia e stile di vita. Ma un cambiamento del genere dovrebbe anche segnare il progressivo ridimensionamento del ruolo di quei templi moderni del consumo che sono il super e l’ipermercato, o il centro commerciale, intorno a cui il capitalismo degli ultimi decenni ha riorganizzato non solo la geografia dei centri urbani (con la desertificazione commerciale di interi quartieri e la scomparsa dei negozi di vicinato) e con essa la quotidianità del cittadino-consumatore costretta a gravitare intorno a questi poli di attrazione, ma anche la struttura planetaria della produzione. Oggi la grande catena di distribuzione, che serve milioni di consumatori, che si approvvigiona in tutto il mondo da decine di migliaia di fornitori che può coinvolgere e abbandonare in qualsiasi momento, che incassa cash e paga a due o tre mesi, sviluppando un’enorme potenza finanziaria, rappresenta le caratteristiche peculiari di un’economia globalizzata assai più dell’industria automobilistica che aveva fornito il modello di organizzazione del lavoro durante tutto il “secolo breve” del fordismo.

Infine viene la gestione dei rifiuti, che sono le miniere del futuro, mano a mano che le vene di minerali che oggi alimentano l’industria si assottigliano, rendendo sempre più ardua e costosa l’estrazione, e che le risorse rinnovabili utilizzate per sostituirle entrano  in competizione con la produzione di cibo. Oggi è facile sottovalutare o addirittura irridere alla raccolta differenziata dei rifiuti urbani, anche da parte di quegli amministratori che ne hanno la responsabilità diretta. Perché non si coglie, e non viene spiegato, che dietro ogni chilo di rifiuti urbani ce ne sono quattro o cinque di rifiuti della produzione, che vanno anch’essi raccolti e trattati allo stesso modo (cosa peraltro assai più facile, perché vengono generati sempre in grandi lotti relativamente omogenei); che il modo migliore di trattarli non è quello di mandarli a smaltimento, ma di incanalarli direttamente verso quegli impianti che li possono rigenerare o riciclare; ma soprattutto che è solo dall’analisi del perché e come un bene si trasforma in un rifiuto che possono venire gli input di una radicale rivoluzione industriale: di una produzione che invece di promuovere l’obsolescenza  dei suoi prodotto, trasformandoli in rifiuti per poterne vendere continuamente di nuovi, torni a progettarli per farli durare, per cambiarne solo le componenti logore o obsolete, o per facilitare comunque il riciclo di tutti i materiali di cui è composto il bene prodotto. In nessun campo come in questo la responsabilità di un cambiamento radicale del sistema è condivisa tra cittadini consumatori, amministratori locali, legislatore, sistema produttivo, cioè imprese, e progettisti, cioè designer. L’ecodesign oggi è un campo di azione ai margini di una cultura produttiva fondata e orientata allo spreco delle risorse. Deve diventare il nocciolo di ogni progetto di riconversione produttiva.

 

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