Guido Viale: Conversione ecologica dell’economia e della società
Conversione ecologica dell’economia e della società
Guido Viale
Evitiamo innanzitutto delle inutili contrapposizione. Conversione ecologica, decrescita, giustizia sociale e ambientale, stato stazionario sono la stessa cosa, declinata in modo differente. Si contrappongono tutte al concetto di crescita, che è il termine con cui attualmente ci si riferisce a quello che Marx chiamava accumulazione del capitale. Molti di noi preferiscono il termine conversione ecologica perché, rifacendosi ad Alex Langer, sottolineano l’aspetto soggettivo della conversione, la necessità di cambiare stile di vita e non solo le strutture della società e della produzione. Per molti di noi la conversione ecologica è l’orizzonte a cui devono riferirsi tutte le nostre scelte politiche, anche quelle insignificanti e tutti i nostri comportamenti. In essa troviamo la convergenza dei grandi problemi che dobbiamo affrontare: clima e ambiente, occupazione e reddito, emarginazione e diseguaglianze, ecc. Ma occorre sostanziarla di contenuti, farla vivere nel nostro agire con l’entusiasmo che nel secolo scorso suscitavano le parole socialismo o comunismo. E’ un orizzonte a cui indirizzarci, non un assetto sociale da realizzare; un processo, sempre contrassegnato da due termini: conflitto e partecipazione da ridefinire ogni volta in termini nuovi, non il sol dell’avvenire o una società senza classi che pone fine alla preistoria dell’umanità.
Attualizziamo il concetto. La COP21 di Parigi è stato un bluff. Nessun impegno vincolante da parte di governi che sappiamo pronti a non rispettare i loro impegni alla prima occasione. Nessuna operatività, mentre uscire dal fossile richiede una articolazione programmatica gigantesca, che nessun governo sa affrontare. Ma soprattutto nessun riferimento alle finti fossili. Ci sono centomila miliardi di dollari in riserve fossili sottoterra e altrettanti in impianti per il loro trattamento. Sono tutti asset quotati in borsa. Azzerarli, anche in un lasso di tempo predefinito, provocherebbe sconvolgimenti che nessuno Stato o governo è pronto ad affrontare.
Andiamo incontro a un periodo molto difficile, sia dal punto di vista climatico (questo inverno ne abbiamo già i primi segnali visibili, ma in altri paesi, come l’Africa, il degrado è molto più avanti e più drammatico) che da quello politico (la stretta verso governi autoritari e a-democratici – nel migliore dei casi – non c’è solo in Italia, ma in tutto il mondo); sia dal punto di vista economico (il “neoliberismo” si è dimostrato fallimentare, il keynesismo, oltre un certo limite, non funziona più, e non c’è nessuna altra prospettiva economica definita in grado di soppiantare il neo-liberismo – che in realtà è solo una corsa alla privatizzazione di tutto l’esistente, non in regime di mercato, ma di monopolio) sia dal punto di vista culturale (nell’establishment il pensiero unico – “non c’è alternativa” – è ancora dominante). Dobbiamo prepararci a un lungo periodo “in trincea” e non a una avanzata delle forze sociali di opposizione. Per questo è molto importante impegnarci in una grande battaglia culturale: preparare, innanzitutto nel modo di pensare, le condizioni di un ribaltamento dei rapporti di forza che ancora non si vede, anche se il tempo stringe.
Due temi sono oggi centrali nel conflitto sociale: quello dei profughi (sono tutti profughi ambientali; anche le guerre che ne producono tanti sono determinate o da un deterioramento del clima e dell’ambiente, o dalla guerra per il petrolio, che è il perno della crisi ambientale) e quello della territorializzazione dei processi economici. Non possiamo pensare che a risolvere le crisi del nostro tempo – clima, guerre, diseguaglianze, emarginazione – sia un governo mondiale che non c’è e non è alle viste, o un accordo tra Stati. Per questo, mano a mano che la situazione si aggraverà – e si aggraverà – a far fronte a queste minacce dobbiamo essere noi: tutti quelli che ne subiscono le conseguenze e che non sono disposti ad accettarle. Per questo anche la conversione ecologica non potrà che procedere “a macchia di leopardo”: là dove l’iniziativa da basso riuscirà ad ottenere qualche risultato, ancorché parziale. Ma solo se queste iniziative avranno come bussola un pensiero globale: agire localmente, ma pensare globalmente. Milioni di altre persone nel mondo stanno lavorando e lottando per gli stessi obiettivi.
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