Annamaria Rivera: Il Mostro e il suo creatore

di Annamaria Rivera

Lo sappiamo bene*: il terrorismo jihadista, ormai fenomeno endemico tanto quanto la guerra, che sia dichiarata o non, è costituito da un intreccio inestricabile fra modernità e antimodernità. Esso è potentemente iscritto nel mondo della comunicazione e della tecnologia globali (si avvale di armi, media e strumenti di intelligence, oltre che di fonti finanziarie cospicue). Ma, al tempo stesso, avendo intima familiarità con la morte, è in grado di opporre il concreto dei corpi, il corpo come arma, all’astratto della nostra tecnologia. 

di Annamaria Rivera

Lo sappiamo bene*: il terrorismo jihadista, ormai fenomeno endemico tanto quanto la guerra, che sia dichiarata o non, è costituito da un intreccio inestricabile fra modernità e antimodernità. Esso è potentemente iscritto nel mondo della comunicazione e della tecnologia globali (si avvale di armi, media e strumenti di intelligence, oltre che di fonti finanziarie cospicue). Ma, al tempo stesso, avendo intima familiarità con la morte, è in grado di opporre il concreto dei corpi, il corpo come arma, all’astratto della nostra tecnologia. 

Esso è anche una forma di totalitarismo, tale non solo in sé, per la mortifera ideologia fondamentalista e panislamista, e per il ricorso alla violenza estrema, perlopiù contro civili, ma anche per il fatto di produrre effetti totalitari. La strategia jihadista mira, infatti, a far cadere l’avversario nella trappola, provocandone reazioni destinate ad aggravare lo stato di guerra su scala mondiale e a far emergere il versante aggressivo e repressivo delle democrazie occidentali. 

È accaduto più volte nel corso della storia contemporanea: si pensi alle legislazioni d’emergenza adottate dalla Francia dopo gli attentati anarchici degli anni ‘90 dell’Ottocento e, più recentemente, durante la guerra d’Algeria, ma anche dall’Italia negli “anni di piombo” e dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre, in specie col Patriot Act

In questa trappola il “socialista” Hollande è caduto in pieno e, con lui, l’Assemblea nazionale che, il 19 novembre, ha approvato il suo progetto liberticida con un voto quasi unanime. Un progetto che, preannunciato in un discorso al Parlamento dai toni marziali e patriottardi, non fa che sospendere garanzie democratiche e libertà pubbliche. 

Infatti, fra le misure previste ci sono: la modifica della Costituzione onde attribuire al presidente della Repubblica maggiori poteri e prolungare lo stato di emergenza di almeno tre mesi, se non ad libitum, come si teme; il domicilio coatto esteso a chi, “per comportamento o frequentazioni, per intenzione o progetto”, sia sospettato “di costituire una minaccia per la sicurezza e l’ordine pubblico”; la possibilità di revocare la nazionalità anche ai cittadini francesi per nascita, oltre che binazionali, se “condannati per attentato agli interessi fondamentali della nazione o per un atto terroristico”; lo scioglimento di associazioni non ben definite, sicché, come ha osservato la giurista accademica Marie-Laure Basilien-Gainche, tutte potrebbero rientrare nel campo di applicazione della legge.  

Per furore bellico e sicuritario, la risposta del presidente francese è del tutto comparabile con quella che fu data da George W. Bush alla carneficina del World Trade Center. In un articolo per Le Monde del 17 novembre, William Audereau analizzava le similitudini tra il discorso di Hollande del giorno prima e quello di Bush del lontano 20 settembre 2001: il “socialista” è riuscito quasi a eguagliare il rozzo guerrafondaio americano, pronunciando ben tredici volte “siamo in guerra”, contro le quattordici del secondo. 

Ancora qualche analogia. Come dopo l’11 settembre, in luogo della denuncia del misero fallimento di miti e dispositivi sicuritari, v’è la loro enfatizzazione. E questa ottiene l’effetto d’incrementare allarme e panico, dei quali Daesh potrebbe paradossalmente avvantaggiarsi. Si aggiunga che il clima da emergenza permanente e il panico diffuso contribuiscono a esasperare xenofobia e soprattutto islamofobia, anche violente. 

L’islamofobia, a sua volta, è veicolata dal lessico degradato dei media, in particolare i nostrani, mainstream e non. Non parliamo di espressioni estreme quali il titolo della prima di Libero del 14 novembre, per il quale Belpietro è stato giustamente querelato, né del dilagare di nostalgie fallaciane. Bensì di una forma in apparenza innocente, se non inconsapevole: l’abuso di “islamici”, termine pass-partout che ha sostituito il più corretto “musulmani”. Non per caso questo lemma polisemico, che permette l’amalgama con “islamisti”, in Italia è entrato nell’uso corrente dopo l’11 settembre (da un po’ di giorni qualcuno, dalle parti della Rai, lo ha sostituito con “gli arabi”, credendo sia politicamente più corretto). 

In realtà, insieme con l’islamofobia, si riaffaccia la tentazione di liberarsi di chiunque, additato come capro espiatorio, sia considerato agente del disordine e, con essa, il teorema del “nemico interno”. V’è dunque il rischio che ancor più s’intensifichi la caccia a indistinti stranieri ed estranei, che già ora prende di mira chiunque rechi qualche segno percepito o immaginato come esotico e dunque sospetto: il “velo islamico” (come i media chiamano l’hijab, cioè un semplice foulard), un accento “strano”, la barba lunga, la carnagione ambrata, la facies “mediorientale” o addirittura “turca”… 

A esorcizzare il serpeggiante senso di panico, smarrimento, vulnerabilità non servirà certo ammantarsi nella bandiera tricolore o rifugiarsi dietro Liberté, Egalité, Fraternité. Così come, dopo l’11 settembre, non servì ai cittadini americani l’ossessivo e onnipresente God bless America. Né c’è più la possibilità di coltivare l’utopia del villaggio globale: chi volesse “disertare” non troverebbe riparo in alcun angolo del pianeta, per quanto remoto e periferico. Se è vero che è ormai interdetta perfino la libera circolazione dei cittadini europei nello spazio Schengen. 

Questa catastrofe la dobbiamo, in primis, agli apprendisti stregoni che governano le nostre sorti e quelle del mondo. Quasi incuranti della devastazione e della violenza prodotti dal colonialismo e dal neocolonialismo, dall’“esportazione della democrazia” in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, dalle perverse alleanze con gli inventorifinanziatori del terrorismo jihadista, dall’emarginazione e umiliazione inflitte per decenni alla “racaille”, essi fingono d’ignorare una verità elementare: l’ordine dominante, il loro, cova in sé i germi della propria distruzione; la Barbarie è, in definitiva, immanente alla Civiltà. 

* Riprendo qui frammenti di analisi, purtroppo attuali, da due miei saggi, entrambi pubblicati nel 2002: “Islam e Occidente: un tragico gioco di specchi”, in A. Rivera (a cura di), L’inquietudine dell’islam (saggi di Arkoun, Cesari, Jabbar, Khosrokavar, Kilani, Rivera), Dedalo; “Terrorismo, guerra, eterofobia”, in G. Leghissa (a cura di), Niente sarà più come prima (saggi di Jean, Kilani, Leghissa, Rivera, Rovatti), La Medusa. 

Versione completa su MICROMEGA 21 novembre 2015 – Una prima versione di questo articolo è comparsa sul manifesto del 20 novembre.
 

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