di Sergio Bellucci
La percezione diffusa è quella dell’esproprio, quella di essere derubati della possibilità di indirizzare il proprio destino, la propria vita. È una sensazione subdola, che si insinua silenziosa quasi senza che tu te ne accorga, ma con un risultato interiormente devastante. Una percezione che ci viene confermata ad ogni invio di curriculum a cui non abbiamo risposta, ad ogni invio di domanda a concorsi che sappiamo già indirizzati e lottizzati, ad ogni lavoretto che incontri e che lede la tua dignità attraverso una paga da fame o per i ricatti, doppi sensi, sotterfugi a cui devi sottostare. È la sensazione che la precarietà in cui sei obbligato, schiacciato, sia vissuta dagli altri come un virus, capace di contagiare la loro esistenza e quel rifiuto a vederti, a riconoscerti, in realtà, sia solo la paura di venire ingoiati da quella spirale che osservano senza sapere chi l’abbia creata, da dove provenga e a favore di chi vada. È quella sensazione di essere stati separati anche dalla parte a cui dovresti appartenere, quella che per vivere deve (provare a) vendere il proprio tempo a qualcun altro, quello che utilizza quel pezzo della tua vita per fare più grande la propria ricchezza. È la sensazione che le miopie e le incapacità di contrattare dei sindacati hanno finito per segmentare e dividere il “tuo” mondo invece che unire. È la sensazione che studiare e prendersi “un pezzo di carta” può anche essere un tuo diritto, ma che quello stesso riconoscimento (ormai a punti) non vale più nulla se non emesso da una qualche struttura iperselettiva alla quale non hai mai avuto mai alcuna chance di accedere.